Tra me e la pallina da golf non è mai corso buon sangue.

Quell’oggettino di poco meno di mezzo etto, pieno di fossette e di circa quattro centimetri di diametro è una specie di esame continuo del mio gioco.

Va a destra, a sinistra, altissima o rasoterra, volteggia nell’aria come un gabbiano o schizza a pelo d’erba verso il bunker più vicino.

Non ha regole prevedibili, almeno nel mio caso.

Maestri bravissimi e dotati di una pazienza immane sono accorsi al capezzale del mio swing e hanno provato in tutti i modi a inocularmi quella regolarità che è, o dovrebbe essere, l’elemento fondante di questo sport.

Ecco: io di regolare ho solo la certezza delle innumerevoli varietà di traiettorie che possono esplodere ad ogni colpo.

Certo, il rumore del rimbalzo in fondo alla tazza della bandiera è una melodia che anch’io, come ogni golfista, apprezzo quasi fosse sinfonia.

Un suono semplice eppure carico di suggestioni, capace di cancellare per un momento i cinque colpi che sono stati tragicamente necessari per infilare finalmente quel par 3 di 110 metri, dopo escursioni tra le piante a destra, nel bunker di sinistra e in quello del lato opposto.

E senza stare troppo a sottilizzare su quel putt da 8 metri che contro ogni legge della fisica e della dinamica ha deciso, dopo una partenza che sembrava destinata a infrangere il muro del suono, a rallentare dolcemente proprio sulla pendenza (onestamente molto poco considerata) e di lì finire, per forza di gravità, proprio nel centro della buca.

Ma, come diceva Tonino Carotone, indimenticato filosofo e cantore degli anni ‘80, “È un mondo difficile, felicità a momenti e futuro incerto”.

Non credo parlasse solo del golf, ma la descrizione calza a pennello alle avventure attorno ai green e dintorni. Anzi, ammettiamolo, proprio in questa sua sfuggente precarietà il golf ci conquista e ci aggioga.

Non ce l’hai mai in tasca, sia che tu ti chiami Tiger Woods o Gildo Pautasso (hcp 54), il sottile fascino del “chissà cosa succede adesso” è il medesimo.

È per questo che, come dicevo all’inizio, guardo da sempre la pallina con sospetto.

È lei che stampa bianco su verde i mie errori: il grip troppo debole, la traiettoria esterno-interno, il backswing sincopato, la testa ballerina, il peso che non si sposta, e via così.

Non dico di odiarla, ma di guardarla in cagnesco sì. Anche se poi, quando si infila nel rough, nel fitto di qualche siepe o sotto le foglie d’autunno mi danno l’anima per cercarla.

Ma non si illuda l’infingarda: non perlustro le zolle palmo a palmo perché non potrei fare a meno della Callaway 3 o della Titleist 1 rossa.

Consumo fino all’ultimo secondo del tempo concessomi per la ricerca solo nella speranza di evitare il “colpo e distanza”.

Della piccola sfera bianca mi importa poco più di nulla. Tanto più che in questo girovagare in punti del campo dove mai umano aveva osato mettere piede mi è capitato spesso di trovare palline perse chissà da chi.

Marche mai viste, loghi sconosciuti, persino un buontempone che le aveva marcate con la scritta “Questo è un regalo di Andrea”. 

In cantina ho un piccolo bottino frutto di queste ricerche.

Scopro adesso che, complice il Coronavirus, questa attività mi sarà preclusa. Se trovo una pallina abbandonata devo lasciarla lì, a scanso di contagi.

Lo ha stabilito, dopo l’ennesimo summit riottoso, un manipolo di virologi, quei personaggi che abbiamo imparato ad apprezzare di questi tempi scoprendo che sono più volubili del mio swing.

Alla fine ha prevalso la corrente che sostiene la pericolosità della pallina da golf. Passando da una mano all’altra potrebbe trasmettere il virus.

Se me lo avessero chiesto prima, avrei risparmiato loro un sacco di tempo, di studi e di discussioni.

Avrei potuto testimoniare, per esperienza personale, che se Piero non mi avesse messo in mano una pallina e un ferro 7, tanti anni fa, io il virus del golf mica lo avrei preso.