Alzi la mano chi si ricorda questa citazione di uno dei film più caratteristici mai girati sulla storia del golf: “Il più bel gioco della mia vita”.

A dirla è il piccolo Eddie Lowery, il caddie di uno sconosciuto Fransis Ouimet, ragazzo di umili origini che nel 1913 si qualificò per disputare lo U.S. Open contro due leggende dell’epoca, Harry Vardon e Ted Ray. La storia è conosciuta: Ouimet batte i due fuoriclasse al play-off aggiudicandosi una storica vittoria.

Un film dalla fortissima carica emotiva nel quale traspare la lotta di classe tipica di un’epoca dove il golf era appannaggio di pochi eletti e tutta la grandezza dello sport e dei suoi valori capaci di annullare le differenze. 

Oggi, centonove anni dopo, lo U.S. Open torna a Brookline, in Massachusetts, per l’appuntamento con la storia numero 122. È la quarta volta che il percorso del The Country Club ospita il major americano. Dopo l’indimenticabile vittoria dell’amateur Ouimet del 1913, di Julius Boros nel 1963 e di Curtis Strange nel 1988, tutti terminati al play-off, si torna in uno dei campi più antichi degli Stati Uniti dal 16 al 19 giugno.

The Country Club è stato il palcoscenico di momenti che hanno per sempre cambiato la storia del nostro sport. Dopo le edizioni del major americano arriva una delle disfatte peggiori della squadra europea in Ryder Cup in quella maledetta edizione del 1999 definita la “battaglia di Brookline”.

Il campo è sempre stato il vero protagonista, dal 1913 ad oggi, segnando indelebilmente vittorie e sconfitte leggendarie e siamo sicuri che lo sarà anche per l’imminente U.S. Open. Non c’è appuntamento che si rispetti senza che scorrano ogni anno fiumi di parole sul livello di cattiveria raggiunto dalla USGA, l’ente americano che gestisce l’organizzazione del torneo, nel preparare il campo destinato ad ospitarlo, regolarmente convertito in 18 buche da incubo.

Questione di punti di vista e di come la USGA stessa interpreta e applica il concetto di spettacolarità al gioco del golf. La risposta da parte loro è sempre uguale: è nella difficoltà che i migliori si distinguono prevalendo sul resto del field. Per i 146 protagonisti in campo invece si tratta di una settimana da mal di testa perenne, capace di colpire anche i più navigati del Tour, senza esclusione di colpi e gerarchie. 

Alcuni ormai l’hanno presa con filosofia: “Del resto è soltanto una settimana all’anno…”, mentre altri regolarmente si lasciano andare a esternazioni tutt’altro che morbide nei confronti dei vertici golfistici americani, scatenando il loro disappunto sui social e un mare di commenti sull’eterna questione. 

Se lo U.S. Open è il major più tosto è però anche senza dubbio anche quello più democratico: quest’anno ben 8.880 giocatori hanno deciso di avventurarsi nelle infinite qualifiche, sognando un posto nel field definitivo. Professionisti e dilettanti con handicap massimo di 1.4 provenienti da 50 stati americani e da ben 72 paesi internazionali hanno dato vita alla lunghissima trafila, scremati fino alle decisive “Final Qualifying”. Solo cinquanta quelli già esentati, ovvero il gotha del golf mondiale, capitanato dal numero 1 del mondo Scottie Scheffler e dal campione uscente nonché numero 2 del World Ranking, Jon Rahm.

Da loro due parte la sfida per alzare il trofeo del major americano più antico. Attenzione a Justin Thomas, fresco vincitore del PGA Championship, suo secondo major in carriera. L’americano a Southern Hills il mese scorso ha dimostrato di vincere anche con uno shank all’ultimo giro. “È la prima volta che alzo la coppa al cielo con un bel socket la domenica e, detto sinceramente, spero sia anche l’ultima”.

Non dimentichiamoci Brooks Koepka che, anche se in difficoltà nei primi due importanti eventi della stagione, è sempre il ‘Mister Major’ del golf con all’attivo quattro trofei e la sua arroganza e spavalderia non gli impedirà di conquistare questi “facili 10 major” che si è prefissato lungo il suo cammino. 

Nella battaglia per il titolo americano è pronta a dire la sua l’Europa, guidata da un Rory McIlroy tornato ai suoi livelli più alti anche se manca da un evento del Grande Slam dal 2014. Dietro a lui, il giovane norvegese Viktor Hovland e Matthew Fitzpatrick, che proprio al The Country Club vinse nel 2013 lo U.S. Amateur. Ma attenzione anche all’armata sudamericana ormai grande protagonista del PGA Tour. Dopo la fusione tra il massimo circuito americano e quello del Latinoamerica, sono tanti i nomi saliti alla ribalta a cominciare dal cileno Joaquin Niemann, andato a segno nel Genesis Open del febbraio scorso, dal connazionale Mito Pereira, terzo al PGA Championship a un passo dal compiere l’impresa di una vita e dal messicano Abraham Ancer. 

La storia è pronta a ripetersi ferma all’urlo liberatorio di Jon Rahm che sul green della 18 di Torrey Pines si portò a casa il suo primo major in carriera davanti alla moglie e al bimbo appena nato. Il suo gesto di esultanza ricco di feroce determinazione e l’abbraccio intenso con il suo fedele scudiero, il caddie Adam Hayes devono essere da monito a chi prenderà il suo posto.

E se sognare non costa nulla, nella lista dei nostri desideri alla vittoria spiccano Francesco Molinari e Guido Migliozzi. Da Chicco, una top 10 e due top 25 in questo inizio di stagione e buoni segnali di ripresa, il gioco sta tornando quello di prima nonostante la concorrenza sia spietata. Diverso è il discorso di Guido, presente a Brookline grazie al suo quarto posto allo U.S. Open dello scorso anno. Il vicentino al momento di andare in stampa non è mai sceso sotto la 52esima posizione in classifica quest’anno, a fronte di un 2021 con tre secondi posti e otto top 20. Ma se è vero che la speranza è l’ultima a morire e il finale di questo nuovo capitolo è ancora tutto da scrivere.

Quindi ci siamo, mettiamoci seduti e godiamoci lo spettacolo.