Ogni anno qui ad Augusta riesco a rubare dei selfie. Quella che mi faccio ogni volta è una vera e propria violenza personale poiché non amo particolarmente rompere le scatole a personaggi famosi.

Mi spaventa sempre una possibile cattiva reazione da parte del personaggio di turno. Forse quello di cui ho timore è che possa uscire il mio lato “oscuro”, non davanti ad un diniego, bensì a una evidente reazione meleducata del “famoso”.

Dopo Henrik Stenson e Thomas Pieters nel 2017, quello con Tiger Woods dentro la club house nel 2018 (ho ancora in mente la faccia del poliziotto che mi guardava torvo), il mio “Selfie Masters 2019” si è aperto con il mito vivente Tom Watson, per concludersi, almeno per ora, com il pittoresco John Daly.

Non voglio mettere a confronto le due carriere golfistiche, nonostante entrambi siano vincitori di major. Ovvio che il palmarès di Tom sia ineguagliabile e di gran lunga superiore. Quello che mi ha stupito è stato l’approccio diametralmente opposto con cui si sono relazionati alla mia richiesta di farsi una foto.

La lezione di Tom in sala stampa

Ero seduto nella mia postazione al media center, concentrato nello scrivere un articolo per il nuovo sito di Golf & Turismo, quando la mia attenzione si è spostata verso un gruppetto di persone che assistevano, senza aver pagato il biglietto, a una lezione gratuita sul grip da parte di Tom Watson.

Ho aspettato che l’otto volte campione major finisse con i suoi consigli sullo swing per avvicinarmi e chiedere il fatidico selfie. Con una splendida voce da attore americano e un modo gentile e garbato, il campione americano non ha esitato un secondo a rispondermi di sì, chiedendomi da dove venissi e cosa facessi nella vita.

Una chiacchiera fugace, una pacca sulla spalle, qualche complimento sui miei tatuaggi e sul mio abbigliamento per poi congedarsi in altre foto di rito.

Tom Watson, insieme a Jack Nicklaus, Severiano Ballesteros, Nick Faldo e Greg Norman, rappresentano la mia adolescenza golfistica, i miei beniamini.

Tra i tanti tornei vinti, quello che è rimasto indelebile nella mia memoria (e non credo solo nella mia) è stato l’ultimo giro allo U.S. Open del 1982 a Pebble Beach. Quel chip imbucato alla 17, da una posizione assurda e con Nicklaus leader in club house, ha rappresentato per me la caparbietà e l’importanza di non mollare mai.

Impossibile dimenticare le immagini dell’esultanza di Watson dopo quel colpo.

Il mercatino di John

Diverso è stato l’incontro con John Daly. Parcheggiato come il suo motorhome, ai bordi di Washington Road, strategicamente davanti a Hooters, noto fast food per aver avuto la geniale idea anni fa di avere al posto dei camerieri ragazze di 18/20 anni che girano in shorts e magliette striminzite.

Quello che si presenta davanti alla casa viaggiante di Daly è un vero e proprio mercatino: giacche, pantaloni, calzini, bandiere, grip e cimeli. Tutto rigorosamente in vendita.

Alla mia richiesta di poter far fare all’eccentrico ex giocatore un video dove salutava i golfisti italiani, la sua manager o moglie, che riscuoteva alla cassa, mi rispondeva dicendo che prima avrei dovuto comperare qualcosa e che comunque John era disposto solo a fare foto e firmare cappellini (ovviamente comprati da lui).

Pago i miei venti dollari per acquistare un cappello, mi metto in posa e scatto il selfie, sotto lo sguardo di un bodyguard che era grosso come una delle tante colonne che si trovano a S. Pietro.

Nel tornare in macchina, rifletto sull’incontro appena avuto e ripenso alla carriera di John Daly, fatta di controsensi, di vittorie e di periodi passati a disintossicarsi dall’alcol. Nella mia mente si susseguono ricordi legati al giocatore californiano, quel play off contro il nostro Rocca, la reazione durante un torneo del PGA Tour che lo vide protagonista in negativo, durante un lancio del bastone nel lago adiacente alla buca.

Ripenso a quando, grazie al forfait di Nick Price, arrivò guidando di notte, e senza provare il campo, vincendo poi il suo primo PGA Championship. Oppure quando anni dopo, in evidente stato di rabbia, lanciò il suo score dopo un pesante 77 direttamente sul tavolo della recording area.

Non so perché ma se penso a Daly mi viene in mente un famosissimo giocatore di calcio che ha militato anche nella Lazio, Paul Gascoigne. Anche lui grande talento ma allo stesso tempo vittima del suo mostro interiore che lo ha costretto a entrare e uscire più volte dai centri di recupero per alcolizzati.