Tra gennaio e giugno il nostro Paese vanta 17 successi internazionali, divisi fra i dieci dei pro e i sette degli amateur: un bilancio migliore di paesi golfisticamente più titolati di noi.

Ci siamo chiesti quale sia la ricetta magica.

L’esperienza ci insegna che più che fornire risposte, il golf pone sempre delle domande.

Una di queste, una che va per la maggiore di questi fortunati tempi azzurri, è come sia possibile che l’Italia del green, una nazione con 91.165 tesserati (dato aggiornato a dicembre 2018), riesca negli ultimi sette mesi a vincere dieci tornei open su vari circuiti con i suoi pro e ben sette campionati internazionali con i suoi amateur, per un totale di diciassette titoli che fanno gola pure a paesi golfisticamente più attrezzati di noi.

Per esempio: prendete i nostri cugini d’Oltralpe, prendete i francesi, coloro i quali hanno appena ospitato un’epica edizione di Ryder Cup.

Ebbene, i galletti, che hanno 650 percorsi e vantano 412.000 tesserati alla FFGolf, hanno una federazione che per il quadriennio olimpico 2017-2020 ha stanziato un budget da 27 milioni di euro, di cui il 27% va dritto, dritto al settore tecnico, vale a dire alle nazionali professionistiche e dilettanti.

In soldoni fanno 7,29 milioni totali, di cui 1,82 annui.

Una cifra, questa, che è più di quanto investiamo noi nel nostro settore tecnico (1,6 milioni), ma che, meramente a livello di risultati sportivi, regala decisamente minori soddisfazioni.

Se infatti a metà giugno la Francia aveva un solo giocatore all’interno dei top 35 della Race to Dubai 2019  (Romain Langasque, in 24° posizione), l’Italia ne schiera addirittura tre, con Francesco Molinari 9°, Guido Migliozzi 23° e Andrea Pavan 32°.

E ancora: al 25 di giugno, mentre gli azzurri avevano già conquistato tre titoli sullo European Tour (Kenya Open, Belgian Knockout e Bmw International Open) e uno sul Pga Tour (Arnold Palmer Invitational), i cugini d’Oltralpe se la viaggiavano ancora a bocca asciutta.

Ma non solo: scorrendo le statistiche del’Alps Tour, il circuito dove si fanno le ossa le giovani star del futuro del green europeo, al 25 giugno risaltavano due cose.

La prima, c’erano quattro nomi italiani nei top 10 della money list (Edoardo Lipparelli, Lorenzo Scalise, Enrico Di Nitto e Federico Maccario), contro due francesi (Poncelet e Lacroix).

La seconda, i nostri atleti impegnati su quel mini circuito avevano già portato a casa quattro titoli, mentre i cugini ne avevano conquistato uno solo.

Dunque: nonostante il minor bacino di utenza, nonostante i numeri più piccoli, nonostante la minor disponibilità di euro, nonostante tutto, l’Italia del golf è un paese sportivamente assai vincente.

E non lo è solo da adesso: già il 2018 era stato un anno da incorniciare, una stagione in cui i golfisti azzurri avevano battuto il record di vittorie internazionali (e tra queste c’era un Open Championship), issandolo a quota trentaquattro.

Il golf insomma continua a sognare in un Paese che non solo non pare avere le stigmate per la cultura sportiva legata al green, ma che pure è piegato e piagato da una profonda crisi economica che non pare volersi fermare.

A questo punto, la domanda d’obbligo è una sola: alla luce di queste vittorie tutte puntate verso l’edizione romana della Ryder Cup 2022, si tratta del solito stellone azzurro o esiste una formula magica?

“Non è niente di tutto questo – precisa Matteo Delpodio, un passato da giocatore di Tour e un presente come allenatore della nazionale professionisti – perché i risultati dei nostri giocatori scaturiscono dalla bontà della preparazione dei nostri tecnici e allenatori, a partire da quelli dei club dei giovani all’interno dei circoli.

A livello didattico non è un segreto che l’Italia sia da anni un punto di riferimento all’estero.

Ma non solo: è vero che abbiamo pochi giocatori, ma è anche vero che quei pochi, quando hanno delle potenzialità, sono seguitissimi dalla Federazione sin da piccoli.

Ne è una riprova il fatto che, anche se i  numeri degli juniores fanno fatica a salire, al contempo i loro handicap si stanno abbassando, dimostrando quindi come il livello tecnico del settore giovanile stia migliorando in continuazione”.

Tradotto: negli ultimi anni la Federazione ha saputo trasformare una sua debolezza – l’esiguo numero di praticanti- in un suo punto di forza.

“A livello Fig – continua Delpodio – c’è molta assistenza grazie al sistema dell’attività giovanile, un sistema che sin dai circuiti under 12 recluta i migliori, li aiuta coi brevetti e li sostiene nella loro crescita tecnica fino e oltre il passaggio al professionismo.

Ovviamente tutto ciò è possibile perché siamo pochi: se guardo agli Stati Uniti, vedo una massa straordinaria di golfisti, che però dalla USGA riceve pochissima assistenza”.

La sostanza è che, soprattutto negli ultimi anni, la didattica dei nostri coach è riuscita a produrre una tecnica che si occupa dell’efficacia e non solo dell’estetica del gioco.

Il risultato è che, forte dei suoi giovani campioni, il golf italiano sta ripartendo dal basso e, attraverso una nuova politica sportiva, sta cominciando a entrare nelle scuole e nelle periferie col Progetto Ryder Cup 2022, abbracciando così il Paese e dimostrando che questo può essere davvero uno sport per tutti, pieno di principi e valori.