In questi 40 anni passati sui campi di golf, all’inizio giocando e in seguito in veste di coach, mi è capitato davvero molte volte di vedere i piccoli figli dei Tour Player tirare palline all’impazzata con un bastoncino di plastica.

Chi costantemente assiste in campo pratica agli allenamenti del padre seduto sul cestino delle palline con in mano il ferro, pronto a sfruttare la prima pausa di papà per provare a colpire la palla.

Chi, in segno di emulazione, li vedi invece passeggiare tutto il giorno con il bastone da golf in mano, tentando di colpire ogni oggetto che gli ricordi una pallina.

Viene quindi spontaneo chiedersi: quando crescono dove finiscono questi potenziali giocatori del Tour? Sono pochissimi infatti i casi di padre e figlio che hanno entrambi militato su European o PGA Tour.

In Europa le uniche accoppiate vincenti del recente passato sono state Antonio&Ignazio Garrido e José & Alejandro Cañizares, mentre negli Stati Uniti sono i due “trichechi” Stadler (Craig e Chris) e Jay & Bill Haas.

Con il piccolo Alejandro Cañizares ricordo ancora le innumerevoli sfide svolte nelle zone di gioco corto del Tour: fin da piccolo non gli piaceva perdere e aveva già in mente quale sarebbe stato il suo futuro.

Le statistiche dimostrano che non tutti i figli d’arte decidono di continuare a giocare. È quindi vera la classica frase che spesso sentiamo pronunciare negli ambienti di golf: “Studia e costruisciti un futuro invece di tirare palline nei boschi!”.

Negli Stati Uniti l’ormai celebre competizione a coppie, il PNC Championship Fathers/Sons, ci conferma che sono pochi i figli che hanno seguito le orme dei padri, ma sono invece tantissimi coloro che hanno continuato a giocare e che hanno raggiunto un buon livello.

La differenza è proprio questa: in Europa chi chiude con il golf agonistico nella maggior parte dei casi smette proprio di giocare, per motivi che variano da quelli economici al limitato tempo libero.

In America, anche quando i giovani abbandonano il sogno di fare i Tour Player, continuano a giocare con gli amici fino a tarda età, momento nel quale il Golf diventa in assoluto il passatempo più divertente e popolare.

Nulla di nuovo. In ogni settore di questo meraviglioso sport gli Stati Uniti sono anni luce avanti al resto del mondo. Nel paese a stelle e strisce tramite il golf i ragazzi si guadagnano borse di studio universitarie diventano molto presto autonomi. Imparano così a competere per un team e fanno importanti conoscenze e relazioni pubbliche, utili in qualsiasi ambito lavorativo.

Negli USA infatti, quando nel curriculum post laurea indichi il golf come tuo hobby e magari sottolinei anche il tuo single digit hcp, hai molte probabilità di scavalcare chi ha avuto più successo di te nello studio.

Guardando il panorama odierno ci accorgiamo che forse qualcosa sta cambiando nelle nuove generazioni, si intravedono infatti sempre più spesso volti noti nelle classifiche dei tornei giovanili e universitari.

Inutile negarlo, in questo momento spicca un nome su tutti, parliamo ovviamente di Charlie Woods.

Il giovanissimo figlio d’arte è uscito allo scoperto schierandosi accanto a papà Tiger nell’ultimo PNC Championship a dicembre, strabiliando il mondo golfistico per talento e determinazione.
Il suo inizio di carriera ci conferma fra l’altro quanto ho sempre sostenuto in questi anni: l’importanza delle competizioni giovanili organizzate per fasce d’età e su percorsi facilitati.

In America vi sono moltissimi circuiti simili al nostro U.S. Kids, stupende competizioni riservate ai bambini dove il Golf si spoglia della sua noiosa burocrazia per lasciar spazio al puro divertimento e alla socializzazione.

Chissà se anche in Europa, grazie a questi circuiti, non si riesca ad aumentare il numero dei giovani giocatori, dei potenziali futuri campioni o semplicemente dei golfisti.
Quando ho iniziato il lavoro di allenatore federale ho incontrato solo persone invasate che sostenevano teorie diametralmente opposte: “I bimbi devono giocare dai tee bianchi, abituarsi fin da piccoli a soffrire per portare a casa lo score“.

Una filosofia di pensiero studiata ad hoc per far smettere precocemente i bambini e allontanarli definitivamente dal golf.
Essere figlio di un pro può ovviamente avere dei vantaggi nella crescita di un giovane golfista, sempre che il bimbo in questione viva vicino al percorso e possa allenarsi senza il bisogno di essere accompagnato al golf ogni qual volta abbia il tempo e la voglia di giocare.

Il poter raggiungere il posto di allenamento autonomamente è davvero vitale per poter emergere nello sport, e in Italia purtroppo sono pochissimi i ragazzi che abitano in prossimità di una struttura.

La maggior parte dei nostri giovani studia in città e gioca solo il weekend, difficile quindi poter fare il salto di qualità.

Quando vado in Gran Bretagna o nei Paesi Scandinavi guardo con molta invidia e ammirazione i bimbi che arrivano al circolo con la loro bicicletta e giocano fino al calar del sole.

Il fattore genetico potrà anche essere importante ma lo è sicuramente di più poter crescere in un ambiente sano e familiarizzare con il bastone e la pallina il prima possibile.

A questo punto diventa quindi fondamentale la disponibilità dei genitori per garantire al bambino di potersi allenare con costanza, quando non si vive nei pressi di un campo da golf i passaggi di mamma e papà diventano infatti davvero indispensabili.
Il loro ruolo poi diventerà ancora più cruciale quando il ragazzino inizierà a competere in giro per l’Italia.

Anche su questo argomento se ne sentono di tutti i colori, tipo: “I genitori non devono assolutamente seguire i figli, devono rimanere in club house, sono loro il vero problema del golf giovanile italiano”.

Quante parole al vento!

Per prima cosa, lasciamo ai genitori la facoltà di decidere se seguire o meno il proprio figlio in gara, come in tutti gli sport.

Che diritto abbiamo di negargli questo piacere?

Come seconda direi di stabilire delle semplici norme comportamentali e di farle rispettare. Previo l’allontanamento dal campo per chi infrange le regole.

Ricordiamoci che il nostro sport non va avanti da solo: a differenza di molte altre discipline molto più facili da avvicinare e più semplici da praticare il golf ha bisogno di costante assistenza.

Senza l’aiuto dei genitori rischiamo di diminuire drasticamente il già esiguo numero di giovani golfisti. Non possiamo quindi permetterci di commettere errori di programmazione né tanto meno di prendere decisioni senza un‘attenta valutazione della reale situazione attuale.

C’è ancora tanto da fare per avvicinare i nostri bambini al golf, per farli divertire, per creare dei buoni giocatori e garantire di conseguenza un futuro al nostro sport.
E la strada non comincia certo con l’allontanamento dei genitori.

Qualcuno potrà anche dire che, esaminando il passato, possiamo notare che molti ragazzi della mia generazione, classe ’64, sono arrivati sul Tour senza mai essere stati seguiti dai genitori durante le gare.

Bisogna però sottolineare che erano davvero altri tempi. Non si intravedeva nel golf la possibilità di fare tanti soldi, c’era quindi una ricerca meno spasmodica dei risultati e vi era sicuramente anche meno concorrenza rispetto ad oggi.

Da ragazzino giocavo solo nel weekend e passavo l’inverno sugli sci, ora questo tipo di vita non è più possibile se vuoi emergere nel golf.

Il livello di attenzione nei riguardi dei figli golfisti era quindi più basso rispetto ad oggi. E non si viveva lo stress che in questi anni respiri nei campionati importanti.

Pensate che la mia prima trasferta con la Federazione l’ho fatta negli anni ’70, a quattordici anni. La gara si chiamava Junior World Cup e si disputava a Torrey Pines, in California, il campo del prossimo U.S. Open. Sono partito con Elena Girardi, la mia coetanea selezionata dal settore femminile, senza alcun accompagnatore al seguito!

Soli soletti, destinazione San Diego, con scalo a New York, ovvero più o meno 24 ore di viaggio. Un saluto ai genitori e via, ci siamo imbarcati per l’avventura.

Senza telefono, senza carte di credito e senza parlare un inglese comprensibile.

Ricordo bene che, a causa di un ritardo in partenza, abbiamo anche perso la coincidenza a New York e ci siamo ritrovati dispersi in un aeroporto grande quanto una città.

Ci siamo dovuti arrangiare da soli per trovare una soluzione e, dopo il timore iniziale, siamo riusciti a trovare una stanza di hotel e a farci prenotare il volo per il giorno successivo.

Alla fine è stata una bella esperienza che mi ha aiutato a capire alcuni meccanismi della futura vita da pro ma, come ho detto prima, erano sicuramente altri tempi.

Ora sarebbe davvero impossibile proporre una trasferta simile ai genitori dei nostri giovani nazionali.