Non c’è davvero nessuno che non abbia almeno una storia da raccontare con protagonista Jim Furyk. Del resto, come dimenticarsi quello swing così paticolare, descritto una volta da David Feherty, ex golfista e commentatore TV, come “un polipo che cade da un albero”.

All’inizio della sua carriera nessun coach e giocatore avrebbe scommesso un dollaro su quel ragazzo dal movimento così particolare e antiestetico.

Se lo ricorda bene Bill Calfee, professionista del PGA Tour per 10 anni tra il 1970 e il 1980 e poi passato a supervisionare le giovani leve del circuito maggiore americano.

Nel 1993, durante una sessione di orientamento per tutto coloro che avevano superato le Qualifying School del PGA Tour, aveva fatto 9 buche al TPC Sawgrass proprio con quel ragazzo dallo swing fuori dal comune.

“Non avevo mai incontrato Jim prima di allora” – disse una volta Calfee – “Appena lo vidi swingare pensai che quel povero ragazzo non avrebbe avuto nessuna possibilità sul Tour.

Ora, ricordando quel giorno, rido e sono felice di essermi sbagliato a giudicare un giocatore alla prima occhiata”.

La storia di Jim Furyk è sempre stata questa. Un giovane educato e ottimo studente, diventato professionista nel 1992 e con uno swing totalmente inusuale.

Bene, questo ragazzo il 12 maggio dello scorso anno ha compiuto 50 anni ed è, dopo Tiger Woods e Phil Mickelson, il veterano d’America con all’attivo 28 vittorie (di cui 17 sul PGA Tour) e un major, lo U.S. Open del 2003 all’Olympia Fields.

“Penso di aver avuto una buona carriera. Sono orgoglioso di ciò che ho realizzato” – afferma soddisfatto Furyk. Poi fa una pausa e sorride – “Ma, purtroppo, tendo a pensare più alle sconfitte che alle vittorie e ai traguardi raggiunti. Sono entusiasta di aver vinto all’Olympia Fields lo U.S. Open ovviamente. Ma avrei potuto vincere il PGA Championship un paio di volte, indossare la Giacca Verde nel 1998 e vincere l’Open Championship nello stesso anno al Royal Birkdale. Non ho mai colpito così bene la palla come quell’ultimo giro al Royal Birkdale!”.

L’americano ha sempre affermato che la sua grande fortuna sia stata avere suo padre Mike come coach.

Tutti, nel bene o nel male, cercavano inevitabilmente di cambiare il movimento di Furyk e il padre fu l’unico a capire che proprio quello swing così poco plastico e ortodosso, sarebbe stata la chiave del successo di suo figlio.

“Non ho mai pensato di cambiarglielo” – racconta Mike -. “Vengo dalla Pennsylvania occidentale e sono cresciuto avendo come idolo Arnold Palmer. Lui aveva un grip perfetto ma un backswing non altrettanto impeccabile. Jack Nicklaus teneva il gomito destro troppo alto, il movimento di Lee Trevino non era ortodosso e potrei andare avanti all’infinito. Quello che conta alla fine sono solo i risultati finali. Non alleno swing perfetti ma atleti che abbiano la piena fiducia in loro stessi, e Jim è uno di questi. È completamente a suo agio con il suo swing e anche nei momenti più difficili ripone pieno affidamento nella sua tecnica”.

L’argomento Ryder Cup 2018 è ancora il punto dolente dell’ex capitano che a Parigi, al Golf Le National, subì insieme alla squadra a Stelle e Strisce una cocente sconfitta per 17½ a 10½.

“Non dirò mai che essere il capitano di Ryder sia stata una esperienza negativa, anzi. Sarò sempre onorato e orgoglioso del ruolo che ho ricoperto.

Ma, nonostante questo, porto ancora viva dentro di me l’amarezza del fallimento: è una ferita aperta che farà fatica a rimarginarsi.

Trovo inutili e banali le domande che costantemente mi vengono effettuate sulle mie scelte e se, con il senno di poi, cambierei o meno qualcosa.

Se non lo pensassi il finale sarebbe lo stesso, risulterei arrogante e presuntuoso, cosa che non sono affatto.

Non criticherò però mai nessuno dei miei giocatori: Patrick Reed, che si lamentava di non essere accoppiato con Jordan Spieth, Tiger Woods, che ha perso quattro match su quattro, così come non uscirà dalla mia bocca una parola negativa su Phil Mickelson.

Sono tutti dei grandi campioni. Avrei invece dovuto far giocare molto di più Webb Simpson, che in quel momento tirava la palla alla grande e sono profondamente arrabbiato con me stesso per non aver riconosciuto maggiormente le sue doti”.

Mike Furyk probabilmente capisce meglio di chiunque altro quanto la debacle di Parigi abbia ferito suo figlio.

“Ho potuto avvertire il dolore attraverso la sua espressione ma penso che sia in pace con sé stesso adesso perché sa di aver fatto tutto il possibile per provare a vincere. A volte, l’avversario gioca meglio di te e ti batte”.

Ora però non è tempo di piangersi addosso ma di bilanci. Arrivato al traguardo dei 50 anni, Furyk non può che tirare le somme della sua carriera, costellata di successi e riconoscimenti.

Non è mai stato un picchiatore con il driver e ha costruito il suo successo sulla precisione, su un grande gioco corto e un putter spesso molto caldo ed efficace.

L’amicizia e la lealtà sono le caratteristiche principali del giocatore americano.

Un aneddoto che faccia capire la stoffa di Furyk arriva da Charles Howell III.

“Nel 2007 al Riviera stavamo giocando insieme l’ultimo giro del Nissan Open ed entrambi avevamo una possibilità di vittoria. Al passaggio dalle prime alle seconde nove ero in contention e Jim non ha mai smesso di incoraggiarmi e incitarmi. Era perfettamente nella parte, a metà tra una cheerleader e un allenatore. Quando segnai il birdie alla 18 per andare al playoff mi ha abbracciato e mi ha detto: adesso vinci questo torneo. Questo è Jim Furyk!”.

Per il momento Furyk continua a solcare i fairway dei tornei del Champions e del PGA Tour e quello che succederà in futuro è ancora tutto da scoprire.

In attesa di quel momento, sicuramente il campione U.S. Open 2003 continuerà a giocare con suo figlio e magari batterlo all’ultimo buca grazie a una delle sue prodezze intorno al green.

Sui fantomatici 50 compiuti lo scorso maggio ha le idee ben chiare: “In realtà non mi sento un cinquantenne e ho evitato di pensarci a questo speciale traguardo anche se poi, alla fine, è inevitabilmente giunto. Per ora penso a divertirmi, a continuare a chiedere a mio padre consigli sulla tecnica e sulla strategia di gioco e a sedermi sulla mia poltrona preferita a fine stagione per fare, come ogni anno, un bilancio. L’unica cosa che non cambierà mai? Il mio swing, naturalmente”.