Abbiamo raggiunto Francesco Laporta (Lapo per gli amici) dopo l’incredibile sesto posto al BMW PGA Championship, uno degli eventi più importanti nel calendario dell’European Tour, nel quale è stato il grande protagonista fino all’ultimo colpo, e da subito si è percepita tutta la sua passione per il golf.

Una passione che da una piccola realtà come quella del Sud Italia l’ha portato a solcare i fairway internazionali e confrontarsi con i migliori. La maturità con la quale si racconta dimostra la solidità di questo ragazzo, che ha ricevuto dalla sua famiglia dei solidi valori a cui aggrapparsi in ogni momento e che, a breve, trasmetterà anche alla sua bambina, in arrivo a metà dicembre.

Dietro quello sguardo fiero si cela il classico ragazzo della porta accanto, che ama stare in famiglia, frequentare gli amici di sempre e che ha una passione sfegatata per la sua squadra del cuore, l’Inter. Ma indagando più a fondo si scopre anche la sua vera e propria mania per le scarpe, rigorosamente Nike. Ne possiede oltre 200 paia, tutte perfettamente ordinate nella sua cabina armadio fatta costruire su misura. 

Partiamo da una domanda fondamentale: hai scelto il passeggino?

Ti dico solo che lunedì dopo Wentworth mi sono recato immediatamente al “Mondo Bimbo” per sceglierlo personalmente.

Bene, ora parliamo di golf. È scattato qualcosa nella tua testa che ti ha cambiato la vita, professionalmente parlando? 

Sono cambiate molte cose a partire dal metodo di allenamento e della preparazione fisica. Vado in palestra due volte a giorno, mattina e sera, dando molta importanza allo stretching per cercare di evitare gli infortuni. Ora mi focalizzo su attività mirate privilegiando determinati colpi, i quali sono sempre stati i miei talloni d’Achille. E poi, ovviamente, è cambiata la mia attitudine mentale. 

C’è un momento chiave che ti ha portato a questi cambiamenti?

Tutto questo è scattato in me quando a metà stagione non stavo ottenendo grossi risultati. A quel punto ho letto “Mamba Mentality”, il libro di Kobe Briant e da lì ho capito che avrei dovuto dare sempre il massimo in allenamento per poi trasportare le stesse sensazioni durante i tornei.

Sono sempre stato appassionato alla storia dei grandi sportivi e di come abbiano fatto a diventare così forti. Leggendo il libro ho realmente capito che dietro ogni atleta c’è tantissimo spirito di sacrificio, duro allenamento, ed è proprio quello che sto cercando di mettere in pratica. 

Ti aspettavi questi risultati così nell’immediato?

A dire la verità assolutamente no. Dopo l’Irish Open ho capito che avrei dovuto fare molto di più per cercare di essere sempre più competitivo ma mai avrei pensato che in così poco tempo sarei arrivato dove sono ora ottenendo il quarto posto all’Open d’Italia e una Top 10 a Wentworth. Il segreto è stata la costanza, la determinazione, i sacrifici e la voglia di giocare sul Tour maggiore anche l’anno prossimo. 

Non vorrei affondare il dito nella piaga ma già che ci siamo te lo chiedo. Cosa ti è saltato in mente alla 18 nell’ultimo giro dell’Irish Open?

Molto semplice, ho cercato l’asta e ho sbagliato il colpo. Stavo giocando bene e mi sentivo che non valeva la pena appoggiarsi a destra per cercare di fare par. Il mio gioco è sempre stato aggressivo e, nonostante la delusione nell’immediato, non ho rimpianti sulla scelta. Ho commesso un errore su qualcosa che volevo fare e non cercando di essere conservativo. 

Hai un mental coach che ti aiuta nel tuo percorso?

Non più. Ho lavorato per gli ultimi tre anni con un mental coach ma da pochissimo ho deciso di continuare per la mia strada e con le mie forze, poi si vedrà.

Obiettivi a breve e lungo termine?

Nel breve sicuramente rimanere nei primi 50 giocatori dell’Ordine di Merito europeo e volare a Dubai a fine stagione per il DP World Tour Championship. A lungo termine vincere un torneo. Ci sono andato vicino nelle ultime occasioni quindi non mollo.

Come ti sentivi sul tee della buca 1  la domenica a Wentworth?

Benissimo, pensavo solo al colpo da tirare, non mi focalizzavo né sulla classifica né sul mare di gente che mi seguiva. Paradossalmente ho sentito più pressione il sabato perché giocavo con Adam Scott, il mio idolo da sempre. Alla 1 del moving day ero veramente teso e quando Scott ha fatto un gancio, mi spiace dirlo, ma mi sono rilassato. In fondo, anche i grandi campioni sul tee della prima buca sbagliano.

Cosa vi siete detti in campo?

Abbiamo parlato di tutto tranne che di golf. Gli ho fatto i complimenti per la sua struttura a Crans-sur-Sierre dove mi sono allenato prima dell’Omega European Masters, dei suoi figli e della famiglia. Di come senta la mancanza dell’Australia, di sport e di calcio. Generalmente tendo a non fare troppe domande quando sono in gara. Se poi ho bisogno vado e chiedo. Ad esempio, prima dell’ultimo giro ho fatto colazione con Miguel Ángel Jiménez e gli ho chiesto cosa bisogna fare per vincere un torneo. Insomma, senza tanto girarci intorno, mi ha detto che ci vogliono le palle! 

Al BMW PGA Championship ci hai creduto fino all’ultimo?

Assolutamente sì, fino a poco prima di giocare ero convinto di vincere, avevo visualizzato nella mia mente ogni singolo colpo, dalla 1 alla 18. Figurati che avevo anche pensavo come avrei esultato all’ultima buca. Ero andato con un atteggiamento molto positivo, poi gli altri hanno fatto meglio di me ma la tenacia e la volontà di vincere non mi hanno mai lasciato.

Nell’ultimo giro la tua palla ha centrato in pieno Pietro Cosenza, il tuo coach. Non posso immaginare come ti sia sentito in quel momento.

Non me ne parlare, che situazione assurda. Ho passato 10 minuti di panico vero dove non capivo se fosse vivo o no. Poi si è alzato in piedi mi si è avvicinato e ho ripreso a respirare. Per fortuna se l’è cavata con una escoriazione all’orecchio ma poteva andare molto peggio. 

Dopo quell’episodio come hai fatto a proseguire senza accusare troppo il colpo?

Ho mantenuto la calma e la lucidità anche perché era Pietro che me l’aveva chiesto. In quella vicenda ho trovato la forza di continuare a giocare e lottare fino alla fine anche per lui. 

Sei molto ‘social addicted’, che utilizzo fai dei tuoi profili?

I social media sono un modo per mostrare a tutti il mio stile di vita, come mi comporto, come mi alleno e spero che questo sia utile a tutte le fasce di età. Sono cresciuto in un contesto difficile, nel Sud Italia le possibilità sono nettamente ridotte rispetto al Nord. Vorrei che i più giovani capissero come anche in una realtà come la mia si possano raggiungere i propri obiettivi. I social aiutano molto in questo, ti mettono in contatto con tantissime persone anche se non le conosci direttamente. Vorrei far capire loro che nella vita, se si vuole davvero qualcosa, bisogna lottare e andare a prendersela. 

Secondo te cosa bisogna fare per rendere il golf più appetibile alle nuove generazioni?

Bisogna insistere nelle scuole e fare capire ai ragazzi e ai genitori che il golf non è più uno sport elitario come lo era all’epoca. Purtroppo, in Italia ci sono ancora pochissime strutture rispetto a paesi molto meno sviluppati di noi. Dai 15 anni trascorrevo sei mesi all’anno in Sud Africa, a Johannesburg, e lì la povertà era nettamente superiore alla nostra. Ma, nonostante questo, il golf era ed è tutt’ora quasi uno sport nazionale. Ai ragazzi danno molte possibilità, le strutture per allenarsi sono eccellenti. Ecco, in Italia si dovrebbero creare molte più Academy dedicate ai ragazzi.

Cosa diresti al Lapo bambino che a 13 anni si allenava in Puglia sognando di fare il professionista di golf?

Di non mollare mai e di non farsi abbattere dagli altri. Da piccolo nessuno credeva in me, a parte la mia famiglia, e questa è stata la mia forza, far capire agli altri che ce la potevo fare. Nelle difficoltà si trovano le rivalse. Bisogna avere “fame” nella vita. 

Chi è invece Francesco fuori dal campo da golf?

Un ragazzo molto legato alla sua terra e alla sua famiglia. Quando non sono in campo amo seguire lo sport in generale, spazio dal basket, al calcio, dal tennis alla pallavolo e poi sono un vero e proprio malato di scarpe, solo e rigorosamente Nike. A casa solo in esposizione ne ho un centinaio. Mi sono costruito una cabina armadio illuminata in vetro, l’invidia di tutte voi donne.

La cabina armadio di Francesco Laporta

Parliamo di Milan?

(Pochi secondi di silenzio). Sto seriamente pensando di buttarti giù il telefono. Mettiamo bene in chiaro che il mio cuore è e sarà per sempre neroazzurro. Quest’anno ho anche iniziato lo shopping compulsivo e mi sono già comprato tutte le maglie. Ora aspetto di prendere i completini per mia figlia Nala che nascerà a dicembre.

Avete scelto un nome molto particolare.

È africano e significa successo e fortuna. È un nome che mi è sempre piaciuto e che mi lega all’Africa, un omaggio al Paese che mi ha ospitato da ragazzino.

Quali sono i valori che trasmetterai a tua figlia?

Lo spirito di sacrificio, il rispetto per gli altri, essere onesta e generosa, seguire il proprio cuore e prendere le decisioni senza farsi influenzare dagli altri. La vita è sua e deve essere libera di poter realizzare e fare ciò che vuole. Basta che sia interista, poi faccia quel che le pare.