Chi ama il golf nutre lo stesso sentimento per Matteo Manassero. Lo abbiamo visto abbattere record, vincere, essere etichettato come un predestinato prima di entrare in un tremendo vortice che lo ha risucchiato sul fondo. Chiunque, da giocatore della domenica, ben conosce la frustrazione che nasce dal passare un momento golfisticamente difficile.
Palline che vanno ovunque e putt che non vogliono mai entrare.

La differenza è che noi il lunedì ci dedichiamo ad altro, i professionisti no.
Noi arriviamo a odiare, seppur per brevi momenti, questo sport per Matteo l’amore non è mai finito. Quando è iniziato non è chiaro. In fondo non c’è stato un momento preciso.
Il piccolo Manny ha sempre sognato di diventare un campione e si è dedicato anima e corpo per esserlo.

Voleva diventare come i giocatori che vedeva in televisione e lo ha fatto. Tutti ricordiamo il suo inizio carriera da professionista. I successi, gli inviti. Lui era il vincitore su un carro dorato.

Un carro sul quale sono saliti in tanti, molto affollato, forse troppo. Questo può aver creato qualche problema?

Direi di no – ci confida -. Non è un aspetto che mi abbia mai preoccupato quello di chi si prende i meriti. Sicuramente il bambino sogna di vincere, di essere un campione e di alzare il trofeo. Immagina i tifosi che gridano il suo nome. Non sogna le interviste con le domande scomode e tutto il resto che fa parte del programma. La fama va alimentata e comporta oneri e onori. All’inizio non ero preparato a tutto questo. Ho vissuto tutto in un’età molto precoce e ho dovuto fare scelte che non ero in grado di sostenere.
Quando inizi a vincere e continui a farlo tutti ti acclamano e nessuno ti dice cosa gestire la situazione e come maturare. Non sei pienamente in grado di analizzare quello che sta succedendo e così invece che focalizzarti sul miglioramento sei distratto dal momento. Tornando al principio, non mi è mai interessato chi sia salito sul carro. Se e quando ritornerò a vincere sarò felice che tutti gioiranno. Non mi metterò mai a dire “mi criticavi e non meriti di godere del successo”. Sono un tifoso di calcio anch’io, capisco come vanno le cose.

Un giorno al bar di Monticello mi hai detto: “Sinora ho dedicato la mia vita al golf, adesso ho scoperto che esiste anche altro fuori dal campo”. Immagino ti riferissi ad amici, ragazze e feste. Insomma la vita di un ragazzo qualunque. Può avere influito nel declino?

Credo che fosse una frase buttata lì in un momento difficile, uno sfogo. Non mi riuscivano le cose e stavo cercando qualcosa. Probabilmente avevo bisogno di passare attraverso quei momenti complicati. 

Oggi, a distanza di anni, hai capito quando e cosa si è inceppato? Testa, tecnica o un mix di entrambe le cose?

È stata una serie di concause probabilmente riconducibili sotto il cappello definito maturità. Ne sono diventato consapevole e da lì è iniziato il mio miglioramento. Un atleta, per riuscire a essere sempre al top, deve migliorarsi in continuazione proprio mentre tutto gira per il meglio. Servono intelligenza, maturità e freddezza. Io allora non le avevo. Era difficile lavorare con me. Conoscevo solo la parte performante del gioco e facevo fatica ad accettare cambiamenti che avrebbero potuto portare benefici. Il tentativo che faceva il mio staff era per il miglioramento e per la crescita. Avevo al mio fianco persone mature e competenti ma era difficile darmi il giusto tempo o input. Sicuramente la genesi del declino è stato tecnico al quale è subentrato l’aspetto mentale legato all’insicurezza. Non riuscivo più a essere competitivo.
Il campo e la pallina non mentono mai. Quando sei in crisi ti rendi conto della situazione, ma non di tutto quello che ti circonda. Chi ci sta accanto non può sapere ogni pensiero che passa nella testa del giocatore. Io salivo sul tee della 1 pensando che sarebbe stato difficile scendere sotto il +3. Le aspettative intorno alla mia persona in realtà creavano pressione.
Oggi mi rendo conto che dovevo passare attraverso un percorso di maturazione. Non è detto che diventerò il giocatore più vincente, però oggi ho una consapevolezza e maturità differenti e sono più completo, come giocatore e come uomo.

In molti avevano detto: “Dovrebbe cambiare coach”. A un certo punto è arrivata la separazione da Alberto Binaghi. È stata tardiva? Traumatica?

Questo tema racchiude diverse sfaccettature. Ho deciso di fare quel passaggio tardi. Questo non perché abbia procrastinato bensì perché Bibi (Alberto Binaghi, ndr) era sempre alla ricerca di soluzioni per affrontare il problema e migliorare. Da lui ho sempre avuto riscontri e feedback, quindi non vedevo il motivo per non riuscire a superare la crisi insieme. Unito a questo aspetto c’è il fatto che sia stato come un secondo padre. Lui è sempre stato, e resta ancora, fondamentale per me.È difficile interrompere un rapporto lavorativo quando c’è dell’affetto dietro. Era una situazione nella quale dovevo mettere un punto alle cose e ripartire. Vedevo un ambiente cupo nel team, seppur mosso dalla voglia di migliorarmi. Avevano visto troppa difficoltà in me. Io mettevo la palla sul tee e sentivo queste sensazioni. Mi avevano visto al meglio e mi stavano vedendo al peggio.
Avevo bisogno di persone che fossero in grado di prendermi per quello che ero in quel momento. Da quando ho avuto mezza categoria nel Challenge ho deciso di mettere un punto e di ripartire. Ho cercato di far le cose al meglio, nella consapevolezza che era impossibile che nessuno ci rimanesse male. Con Massimo (Messina, ndr) e Alberto ho ancora ottimi rapporti.

Da ragazzo hai infranto record e sei stato sotto i riflettori. Cosa si prova ad essere fuori dal Tour? Hai sempre sentito l’appoggio della gente o hai avvertito dello scetticismo?

La cosa peggiore dello scetticismo è che lo si ha dentro di sé. Ci si chiede come si possa essere arrivati a livelli così alti e poi così bassi. In un mondo dove la cultura sportiva è arretrata la gente non si spiega come mai non si cambi. Ho avuto attestati di stima che però avevano un fondo di scetticismo.

Ma la cosa peggiore rimaneva la mia personale delusione. Ho sentito un senso di responsabilità verso il mio team. Noi professionisti godiamo nel far gioire i tifosi ma non ci sentiamo in  colpa nei loro confronti se le cose non girano. 

Hai mai perso fiducia in te stesso o maledetto il golf? Hai mai pensato che la tua carriera potesse essere finita? Hai mai pianto?

Pianto assolutamente sì. Ho vissuto momenti di grande difficoltà nei quali ho faticato a vedere, non solo la certezza dei risultati, ma anche la sola possibilità di miglioramento. Oggi provo a progredire giornalmente senza l’assillo di dover tornare alle performance di un tempo.

Quando un atleta che vive della passione e dello sport, impegnandosi a fondo pensa che non ce la farà, vi garantisco che sprofonda in un grande senso di tristezza. La mia vita è il golf e sempre lo sarà, non puoi odiare una cosa che ami visceralmente.

Dove e quali motivazioni hai trovato?

Tutti viviamo per cercare di toglierci delle soddisfazioni. Prima pensavo che queste fossero solamente legate ai successi. Ho dovuto cambiare il mio punto di vista. Prenderle da altre parti per alimentare il fuoco di “così mi piace” o “mi soddisfa e mi dà energia”.

Mi ha aiutato molto la mia mental coach Alessandra Averna, che mi ha indirizzato facendomi capire il perché di molte cose. Non potevo continuare a pensare di lottare per tornare a determinati livelli ma focalizzarmi al miglioramento quotidiano per arrivare a un giorno, che può essere oggi, nel quale sentir tornare quell’energia per competere e vincere. Allora non ero in grado e l’ossessione della vittoria mi procurava solo difficoltà e pressione.

Che cosa hai cambiato?

Il cambiamento è stato mentale, di approccio e motivazionale. James Ridyard mi ha dato un apporto tecnico diverso. Io sono sempre stato molto seguito e coccolato. Quasi viziato! Con James faccio sedute tecniche e poi lavoro per conto mio anche per due o tre settimane. È un modo di fare le cose un po’ diverso ma ho trovato belle sensazioni. 

Il rapporto va bene perché c’è dialogo, mi dice che fare, ci lavoro, mi convince e poi lo porto in campo. I miei difetti e le cose da migliorare nel gioco erano state individuate anche prima. Questo approccio mi ha dato un’efficienza meccanica che prima non trovavo con facilità. C’è stata sicuramente anche una sorta di maturazione da parte mia.

La tua fidanzata, che voci di corridoio dicono presto diventerà tua moglie, quanto ha influito nella rinascita?

Voci fondate. Ho una vita privata che non cambierei per niente al mondo e poi ho il golf. La felicità passa anche attraverso l’appagamento giornaliero del lavoro. Io amo giocare e lavoro tutti i giorni della mia vita per riuscire a farlo bene. Adesso la sfera privata mi aiuta, allora non avevo la stabilità attuale ed era tutto più difficile. Avere una persona al proprio fianco che ti permetta a volte di “distrarti” da quell’ossessione (positiva) è fondamentale, ti consente di avere una contatto con la realtà, essere te stesso. Semplicemente Matteo. Francesca mi dà tanto di questo, mi fa stare in equilibrio. È allegra, sorridente. Finisco il giro, ho giocato male e lei è lì a darmi tranquillità. Ci aiutiamo a vicenda e mi toglie tanta pressione.

Matteo Manassero insieme alla fidanzata Francesca Apollonio

Abbiamo visto una ripartenza graduale. Alps Tour, Challenge e qualche apparizione sul DP. Una scelta voluta o obbligata?

Lo scorso anno è stata una scelta obbligata. Quest’anno avrei avuto più possibilità per inviti ma la scelta è frutto della volontà di crescere step by step giocandomi le mie carte. L’obiettivo è quello di tornare a disputare i tornei più importanti. 

Il momento in cui ho avuto il diritto di giocare l’Alps Tour ha significato che quello era il mio posto. La scelta peraltro è stata giusta perché ho potuto sentirmi a mio agio ritrovando la sensazione della competizione. Era una vita che non vincevo ed essere tornato primo in classifica mi ha dato appagamento.

Hai anche frequentato la Superlega. Che ne pensi?

Ho avuto un invito da IMG, la società che segue la mia immagine, e l’ho sfruttato. Io credo che stia succedendo grossomodo la stessa cosa per tutti gli sport. La gente paga per lo spettacolo. 

I bambini vogliono vincere il Masters e non una gara anonima da 20 milioni di dollari. La novità non deve essere vista come un attacco ai Tour e i giocatori faranno le loro valutazioni. Sono d’accordo sul fascino delle gare che hanno segnato la storia e che non ci siano preclusioni nell’accesso ai diversi circuiti.

La gente vuole vedere i migliori in campo. Per quanto riguarda la gara in Arabia Saudita posso dire che era organizzata in modo eccellente e giocare in un field con vincitori di major mi ha fatto bene. Ho provato il percorso con Mickelson e Hatton, divertendomi e respirando l’atmosfera degli eventi importanti. 

A che punto sei del percorso verso il ritorno da protagonista sul Tour?

Sento che ho attraversato il momento in cui la visione della gara e della competizione erano un ostacolo e una difficoltà. Ora sto aggiungendo pezzi importanti alla stabilità del gioco. So che c’è da lavorare. Oggi so che posso guardare piccoli dettagli per fare un colpo in meno a giro. Performo per come mi alleno. Prima avevo un ostacolo nel scendere in campo a gareggiare ambendo al risultato.

Ho cambiato punto di vista, guardo i piccoli miglioramenti e trovo aspetti che mi danno soddisfazione. Il risultato è fuori dal mio controllo. Vedo il miglioramento nel quotidiano e sono soddisfatto di quello che ho visto. A livello tecnico ho raggiunto gli obiettivi che mi ero prefissato nelle prime gare dell’anno. Sono più preparato verso qualsiasi cosa mi possa succede e questo è un gran passo per poter avere buoni risultati. Ho armi per affrontare molte situazioni e sento di essere meno impreparato e ansioso verso quello che può capitare.

Così come un capitano che ha attraversato il mare in tempesta e rischiato di affondare nel vortice dell’insuccesso, oggi Matteo ha di nuovo il timone del suo gioco e della sua vita. 

Il ragazzo è diventato uomo.