Nel nostro viaggio che ripercorre la storia degli ultimi condottieri europei, diamo la parola a Paul McGinley, capitano della memorabile vittoria a Gleneagles nel 2014. È stato il primo irlandese a guidare il team del vecchio continente nella biennale sfida contro gli stati uniti.

Celebre per aver portato l’Europa alla vittoria nel 2002 grazie al putt imbucato alla 18 nel match-play contro Jim Furyk al The Belfry, Paul McGinley è stato tra i protagonisti di Ryder Cup anche nel 2010 e nel 2012 come vice capitano rispettivamente di Colin Montgomerie e di José María Olazábal. Nel 2014 è arrivata la tanto attesa chiamata alla guida del team, ruolo che ha svolto con il massimo dei risultati, portando il Vecchio Continente alla vittoria a Gleneagles.

Il campione di Dublino ha ottenuto quattro titoli in carriera sul massimo circuito europeo ed è stato il primo irlandese a condurre la squadra del Vecchio Continente nella biennale sfida contro gli Stati Uniti.

Lo abbiamo incontrato nel corso di un evento del Legends Tour, il circuito Over 50 europeo, dove ci ha ricordato le emozioni della sua Ryder scozzese vissuta da capitano, lasciandosi andare anche a qualche previsione per ciò che ci attende a Roma a settembre.

La Ryder Cup è ormai dietro l’angolo e sarà un’edizione storica, la prima in Italia. Cosa ne pensa di Luke Donald e dei vice capitani selezionati?

Stiamo entrando nella fase calda pre-evento e di cose da fare ce ne sono ancora tante. A Whistling Straits  il team europeo ha perso con un distacco mai visto prima.

Luke Donald sta facendo un  importante lavoro dietro le quinte, per il momento ottimo a mio avviso, ma saremo in grado di tirare le somme solamente ad evento concluso. Abbiamo alcuni dei giocatori più forti al mondo: John Rahm, Rory McIlroy, Shane Lowry, Tommy Fleetwood, Tyrrell Hatton e non dimentichiamo Matt Fitzpatrick, vincitore dello U.S. Open 2022. 

Abbiamo indubbiamente le basi per un team molto competitivo; starà poi ai ragazzi più giovani dimostrarsi pronti. Non dimentichiamoci che la squadra americana ha perso alcuni giocatori importanti, come Dustin Johnson, Brooks Koepka e Bryson DeChambeau passati al LIV. Penso che ai nastri di partenza a Roma, l’Europa sarà pronta a lottare per la vittoria. 

Ha fatto alcuni dei nomi che hanno scritto la storia di questa generazione. Quali sono le principali differenze tra questa e la sua?

A mio parere stiamo affrontando un cambio generazionale importante: ai miei tempi la squadra europea era composta da giocatori come Colin Montgomerie, Lee Westwood, Ian Poulter, Sergio Garcia, che avevano delle percentuali di vittoria altissime. A loro si aggiungevano poi giocatori come me, che tentavano di portare a casa qualche punto e supportare i pilastri del team.

Nel 2021 c’è stata la dimostrazione lampante che quella generazione di campioni europei di Ryder Cup non esiste più e i migliori giocatori del mondo devono riuscire a fare più punti possibili e dare sicurezza alla squadra europea. Questo è ciò che deve accadere a Roma quest’anno. 

Cosa ne pensa del Marco Simone, campo in cui si terrà la Ryder Cup?

Il percorso è ottimo, ha un appassionante finale in cui vedremo sicuramente delle sfide incredibili. La preparazione del percorso sarà certamente importante, ma penso che la chiave, come ad ogni Ryder Cup, sarà il pubblico: ci aspettiamo che il calore degli italiani venga riversato in campo e sui nostri giocatori. La vostra carica farà la vera differenza. Io sarò sicuramente presente, ma lavorerò in televisione.

Non vedo l’ora di godermi la città di Roma, soprattutto per il cibo e il vino italiano! Penso davvero che sarà un’edizione memorabile: l’Italia è probabilmente il paese più bello d’Europa, ha le macchine più affascinanti al mondo, i marchi di moda più lussuosi, le ragazze più belle d’Europa, il miglior vino ed il miglior cibo del pianeta. Non mi viene in mente luogo migliore per un evento coinvolgente come la Ryder Cup!

Come pensa che un evento di tale risonanza possa impattare sull’Italia?

Ovunque sia stata giocata, la Ryder Cup ha sempre portato tanta gente e un enorme entusiasmo. Non mi aspetto nulla di diverso, se non di più per le ragioni prima citate. 

I fan godranno di un evento unico in una delle capitali più rinomante del mondo, con la sua storia e tutto l’intrattenimento che ne consegue. Penso che anche per gli americani sarà un’edizione speciale e parteciperanno in gran numero. Sarà certamente divertente.

Penso che tutti coloro coinvolti nell’organizzazione dovranno fare il possibile per rendere l’esperienza unica e impregnare la Ryder di quanta più “italianità” possibile. 

Tornando al possibile team, con sei wild card a disposizione, quali caratteristiche pensa che Luke Donald cercherà nei suoi giocatori?

La prima cosa sarà certamente lo stato di forma al momento della scelta. È molto importante che i giocatori vengano selezionati in base alle loro performance e sensazioni in prossimità dell’evento.

Sapete, la Ryder Cup è un evento unico: il match termina in 18 buche, bisogna riuscire in poco tempo a giocare aggressivi, fare tanti birdie e chiudere il match nel minor tempo possibile. Il mood di gioco è totalmente diverso da un torneo a 72 buche. Quest’ultimo è come una maratona, i match play di Ryder invece sono paragonabili ai 100 metri. Bisogna essere iper aggressivi ed agire velocemente. Questa è la ragione per cui Ian Poulter è così implacabile in match play: dà il meglio di sé in tempi limitati, oltre ad essere mentalmente imbattibile. Tiger Woods, anche lui un fenomeno a livello di testa, è sempre stato un maratoneta, imprendibile sulla lunga distanza piuttosto che sulle poche buche del match play. 

Tra tutte le edizioni di cui è stato protagonista, quale porta più nel cuore?

Devo menzionarne due. Come giocatore, ricordo con particolare emozione quella del 2002, in cui ho portato alla vittoria il Team Europe grazie al mio putt alla 18 contro Jim Furyk.  Dall’altra, ho avuto la fortuna di guidare alla vittoria la squadra europea a Gleneagles nel 2014, emozione incredibile che porto nel mio cuore continuamente. Mi ritengo un privilegiato in quanto ho partecipato a sei edizioni in totale, tre come giocatore, due come vicecapitano e una come capitano. Ho dei ricordi unici, incredibili e, fortunatamente, tante vittorie. 

Nel 2014 ha avuto la meglio di una squadra statunitense molto forte e capeggiata da Tom Watson: cosa significa sapere di doversi confrontare con una leggenda del nostro sport?

Sinceramente ho cercato di non porre troppa attenzione a Tom Watson in quell’occasione. Come giocatore ha fatto la storia del golf; tuttavia, essere capitano di Ryder Cup è un’altra cosa. Ho cercato di non farmi intimorire dalla sua bacheca di trofei e mi sono concentrato sulla mia squadra. Il mio compito era di metterli nelle condizioni migliori di performare, di tenerli motivati, di creare le coppie più affiatate e di mettere in campo i giocatori in grado di fare la differenza in quel preciso istante. Questo approccio ha pagato fortunatamente.

Più in generale, lavorare con figure di tale spessore aiuta a crescere a livello agonistico ma anche personale, insegnandoti a vivere in un mondo talvolta difficile con il giusto piglio e arricchendo così il proprio bagaglio di vita, beneficiando da vicino dell’esperienza di grandi professionisti.

Parlando di campioni incredibili: cosa ne pensa della situazione di salute di Tiger Woods e del suo futuro?

Sicuramente è un dispiacere saper delle sue difficoltà addirittura nel camminare. Il suo gioco è ancora di alto livello e, sinceramente, è in un’età (47 anni) e in una forma fisica per cui sarebbe perfettamente in grado di vincere ancora tanti titoli. Basti guardare Phil Mickelson, che ha vinto il PGA Championship a 51 anni. Tuttavia, per il movimento golfistico, è importantissimo averlo ancora presente ed attivo. Se penso possa vincere ancora un major? Sapete, un torneo dello Slam non si vince dall’oggi al domani, ma ci si arriva lavorando duro e accumulando buone performance nel tempo. 

Cosa ne pensa della diatriba che riguarda il LIV? Crede che possa in qualche modo danneggiare il sistema del golf mondiale?

Si tratta di un nuovo competitor entrato nel l’industria del golf. La verità è che in un sistema aperto non si può bloccare l’accesso a nuove realtà. Sono d’accordo che i giocatori non possano giocare in entrambi i circuiti: se vuoi competere sul LIV allora non puoi farlo su DP World o PGA Tour, e viceversa. Penso che il LIV sia libero di organizzare il proprio circuito, dall’altra parte noi del DP World Tour faremo lo stesso e ci impegneremo per renderlo sempre più interessante e coinvolgente. 

Lei può ormai essere considerato un veterano del golf continentale: quali insegnamenti e consigli si sente di dare alle nuove generazioni?

Il golf è un gioco di alti e bassi; sono più i giorni in cui si subiscono delle sconfitte rispetto a quelli in cui si gioisce per delle vittorie. È una lezione di vita: bisogna mantenersi umili sapendo che con il duro lavoro e la giusta attitudine la vittoria sperata può arrivare in ogni momento. Mai lasciarsi affliggere dalle avversità ma continuare a credere nei propri mezzi. 

Per concludere, quale ritiene essere il colpo più bello della sua carriera?

Devo tornare a un colpo già menzionato: il famoso putt vincente della 18 del The Belfry durante la Ryder Cup 2002. Ricordo perfettamente quel momento magico: era un putt di circa quattro metri, con una forte pendenza sinistra-destra. La palla è partita come l’avevo immaginato, ha iniziato a rotolare perfettamente ed è finita nel centro della buca. È stata una gioia indescrivibile. Non ho pensato ad altro che a farla rotolare con la forza giusta sulla linea che mi immaginavo. È stato come segnare il rigore decisivo per vincere la Coppa del Mondo: impagabile e indimenticabile!