Ai golfisti, ma anche a molti appassionati di storia del nostro sport, il nome di Francesco Pasquali probabilmente non dirà molto.

Eppure è stato un grande maestro. Un campione che ha aperto la strada al golf in Italia e un eccellente clubmaker, i cui pezzi sono tuttora molto apprezzati dai collezionisti.

E soprattutto l’uomo che, nel settembre 1925, si aggiudica sul percorso di Stresa il primo Open d’Italia.

Pasquali nasce a Bientina, in provincia di Pisa, nel 1894. Già pochi mesi dopo, come tanti italiani in quel periodo, si trasferisce con la famiglia nel sud della Francia, a Hyères.

E al pari di tanti ragazzini si avvicina al mondo del golf come caddie in un campo nelle vicinanze. Viene notato e seguito dal professionista inglese Freemantle, di cui diverrà poi assistente.

Allo scoppio della Grande Guerra, Francesco Pasquali va soldato nelle Ardenne con le Camicie rosse di Peppino Garibaldi.

Il suo sogno però è rivedere l’Italia. Ci riesce verso la fine del conflitto – è ormai il 1918 – quando viene inviato a combattere sul Monte S. Michele.

Viene anche ferito, e durante la degenza, essendo fra l’altro un abile giocatore di dama, è molto richiesto dai medici per intrattenere i soldati più bisognosi di assistenza.

Tornato in Francia, nel 1922 inizia l’attività come professionista al Golf di Valescure presso Saint-Raphaël, fondato nel 1895 da un gruppo di appassionati inglesi.

Un’attività che continuerà alternando la stagione estiva prima a Parigi, dove conoscerà la futura moglie Madeleine, poi in Olanda, per tre anni al golf di Scheveningen, affacciato davanti al mare del Nord e vicino alle spiagge più famose del Paese.

La stagione invernale la trascorre invece in Costa Azzurra, dove gli ospiti inglesi accorrono numerosi perché il clima dolce consente loro di praticare lo sport anche nei mesi più freddi.

Pasquali è ormai molto apprezzato come maestro di golf ma anche come clubmaker. Ha quattro figli, due ragazze e due maschi gemelli, uno dei quali seguirà le orme paterne. La famiglia vive bene.

Ha molti amici italiani, emigranti che si sono bene integrati. Ma Francesco ha un sogno nel cassetto da troppi anni. Tornare stabilmente a vivere in Italia.

Una sua allieva, una baronessa che è a conoscenza di questo suo desiderio, lo informa che un gruppo di albergatori di Stresa stava iniziando a costruire un percorso di golf a Gignese, sulle alture sopra la cittadina del lago Maggiore. Lo mette in contatto con loro.

Il disegno del tracciato e la direzione dei lavori erano stati affidati a Peter Gannon, un grande progettista britannico nato in Argentina.

Quasi subito, però, Gannon intende abbandonare la direzione di lavori di Stresa per seguire sul lago di Como quello che diventerà il suo primo progetto nel nostro Paese: il Villa d’Este Country Club.

A lui si dovranno negli anni successivi gli splendidi percorsi di Milano, Courmayeur, Firenze Ugolino, Sanremo e Varese.

È così che gli investitori di Stresa invitano Pasquali a sovrintendere i lavori di tracciatura e realizzazione del progetto di Gannon, con l’offerta di diventare poi Maestro titolare del circolo.

Il golfista venuto dalla Provenza accetta. Non vuol perdere un’occasione accarezzata così a lungo.

La moglie non è entusiasta: Gignese è un villaggio di mezza montagna, rustico e lontano mille miglia dalle comodità e dalla mondanità della Costa Azzurra.

Ma Francesco ha già tutto in mente e la rassicura: «È vero, è un terreno povero. Ma qui nascerà un bellissimo golf». Siamo nel 1924, niente più le brume dell’Olanda. Dopo l’inverno, finalmente il sole italiano.

Il progetto di Gannon è bello anche se pensato per un mancino e bisogna darsi molto da fare perché i tempi sono stretti.

Anche le finanze non sono molte, ma si farà tutto il possibile per garantire l’apertura a fine estate dell’anno successivo.

Si chiamerà Golf di Stresa. Il 7 giugno 1925 nei locali dell’Hotel Regina di Stresa il Consiglio Direttivo delibera che l’inaugurazione del nuovo campo avverrà con una “Riunione di Gara di Campionato” tra il 21 e il 27 settembre. Il 28 giugno il Consiglio stanzia la somma di lire 3.000 per indire una gara per “professionali”.

Era nato il primo “Open d’Italia”, anche se all’epoca si chiama ancora alla latina “Omnium”.

Il 21 settembre 1925 sul tee di partenza si presentano tre distinti signori: Francesco Pasquali, William H. Jolly e Luigi Prette.

C’è anche il progettista del campo Peter Gannon: solo che non risulta iscritto come professionista e teoricamente non può gareggiare.

L’imbarazzo viene risolto permettendogli di partecipare ma senza che ciò venga riportato sui registri.

A quel tempo il dress code impone di presentarsi sul tee con la giacca. Tuttavia è permesso togliersela per effettuare il colpo. Così fanno gli altri concorrenti.

Francesco Pasquali invece la tiene addosso e si limita ad allacciarne un bottone per eseguire poi un’infilata di swing impeccabili.

Completa le 36 buche del torneo in 154 colpi, divenendo così il primo Open Champion d’Italia.

Un punteggio eccezionale, se pensiamo che è stato ottenuto con legni e ferri dell’epoca decisamente meno performanti di quelli odierni.

Negli anni successivi Francesco Pasquali dividerà la sua attività di apprezzato maestro fra l’Italia e Valescure.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale, nell’estate 1939, lo coglie in Italia con la famiglia. Non potrà più rientrare in Francia.

Iniziano anni duri. Rimedia qualche lezione a Milano tra gli allievi affezionati che incontra presso i negozi di articoli sportivi.

Ma non è certo facile, bisogna resistere. Allievi e clienti amano molto chiacchierare con lui perché è anche un grande filosofo della disciplina e sa affascinarli. Non una cosa da poco, per un maestro di golf.

Uno dei figli, Giacomo, diventerà maestro a sua volta e affiancherà il padre per lunghi anni al campo di Stresa che nel frattempo prende il nome di Golf Alpino di Stresa.

Francesco Pasquali dà lezioni fino quasi gli ultimi anni della sua vita. Morirà nel 1977 a 83 anni. Giacomo scompare prematuramente nel 1988.

Francesco non amava molto parlare del suo titolo al primo Open d’Italia. Diceva: «Eravamo in tre.

Tre amici, e io ero il solo a conoscere il campo…». Si sentiva un po’ a disagio. Perché il suo motto era: onestà, umiltà, deferenza.

Un personaggio speciale, di quelli che lasciano il segno e che per questo meritano di essere ricordati.