Impossibile descrivere a parole l’emozione che si prova entrando all’Augusta National la prima volta, percorrendo la Magnolia Lane.

Di Masters ne avevo visti tanti in televisione ma non immaginavo proprio l’esperienza che stavo per vivere quando, nel novembre del 2009, Pierre Bechmann, attuale Presidente Ega, invitò Matteo Manassero a provare il percorso.

Abbiamo alloggiato nella villa che si affaccia sul tee della buca 10.

Ogni mattina mi svegliavo alle prime luci dell’alba e mi soffermavo ad ammirare lo straordinario lay out del campo, immerso in uno splendido parco botanico.

Una settimana indimenticabile, nella quale ebbi addirittura l’onore di poter giocare ben sei giri completi sul campo di gara e un paio nel famoso Par 3 Course.

Le condizioni a novembre erano perfette ma ovviamente ben diverse da quelle che avremmo poi trovato ad aprile in occasione del major.

Per prepararmi al meglio e onorare il ruolo di caddie che Manassero mi aveva affidato, decisi di comprarmi cinque mappe del campo e i DVD delle ultime edizioni.

Ogni sera, da febbraio in poi, iniziai a studiare le immagini del Masters e a scrivermi tutte le informazioni sui miei preziosi Course Book.

Questo studio mi è servito davvero tanto: quando ad aprile ho messo la sacca in spalla mi sono sentito pronto ad affrontare l’Augusta National, uno dei tracciati più difficili da domare a detta degli anziani caddie del Tour.

Il vento che cambia spesso sia di intensità che di direzione, i green duri, veloci e ondulati e le bandiere che nascondono sempre qualche tranello ti fanno capire che ad Augusta non puoi proprio mai distrarti.

Un piccolo errore e ti ritrovi con facilità tre colpi in più sullo score.

La soddisfazione più grande fu che, oltre al taglio passato, Manassero risultò essere a soli 16 anni l’unico giocatore a non avere fatto un doppio bogey, cosa che successe anche nel precedente major da lui giocato, l’Open Championship del 2009.

Un record che pochi conoscono e che ritengo veramente difficile da eguagliare.

Quali sono i segreti e le difficoltà di Augusta? Tutto parte da quando, la mattina presto, ti consegnano le posizioni delle bandiere nella Caddie House, la stanza dove si indossa la famosa tuta bianca e i porta sacca consumano i propri pasti.

Ricordo l’emozione e l’adrenalina nel trascrivere le posizioni delle aste sulla mappa, nel sentire i commenti dei caddie e nell’individuare, a seconda del vento, quali sarebbero state le bandiere da attaccare, quelle da rispettare e quelle praticamente impossibili da prendere.

La strategia è fondamentale al Masters ma la puoi decidere soltanto quando prendi visione delle aste e della direzione del vento.

In molte occasioni è infatti preferibile finire in bunker o avere un approccio piuttosto che terminare nella parte sbagliata del green.

Difficile dire quali siano le buche chiave, sarebbe troppo scontato indicare l’Amen Corner (11, 12 e 13). Sicuramente i due par 5 delle seconde, la 13 e la 15, con i green duri e ben difesi dall’acqua, sono quelle nelle quali si può fare la differenza, nel bene e nel male.

Qui puoi guadagnare o perdere colpi con estrema facilità e molto spesso questo succede addirittura con colpi simili. Il green della 15 in particolare ha sempre regalato parecchie emozioni al pubblico e altrettanti dolori ai giocatori.

Nel tracciato ogni buca può cambiare il volto in un istante e passare da dottor Jekyll a Mr Hyde a seconda del posizionamento della bandiera.

La buca 6 all’apparenza è un tranquillo par 3 di 170 metri in discesa: con la bandiera corta a sinistra ti sembra di avere la possibilità di fare hole in one, perché le palle tendono sempre a finire in quella zona del green, con l’asta lunga a destra firmeresti per un par senza discutere.

Così come la famosa 16: nella giornata finale porge la guancia e si fa aggredire, mentre con le aste a destra si fa rispettare e ti punisce al minimo errore.

Si è parlato molto del doppio bogey di Francesco Molinari alla 12 nel giro finale del Master 2019.

Quali sono i pericoli di questa buca? Qual è stato l’errore di Chicco?

Il pericolo numero uno è sicuramente il vento, che sbatte sul folto bosco che circonda il green e cambia improvvisamente direzione.

Sono convinto che l’unico errore che Molinari abbia commesso in quell’occasione sia stato un eccesso di sicurezza dovuto allo stato di forma che stava attraversando. Ha tirato dritto all’asta, per un colpo che avrebbe potuto chiudere il Masters a suo favore.

In quella buca, se non vuoi avere guai, normalmente miri al centro del bunker, per avere qualche importante metro in più di “safe zone” ed essere più protetto nel caso in cui una folata di vento contrario interferisca con il volo della palla.

Tiger, che ha giocato dopo Chicco, non è caduto in tentazione: i suoi occhi non hanno neppure guardato l’asta.

Si è allineato al centro bunker e si è anche accertato di creare un effetto che lo allontanasse dalla bandiera e dai pericoli.

Augusta è un campo particolare: dal tee sembra darti abbastanza respiro.

Il rough è praticamente inesistente e il sottobosco è composto da un soffice letto di aghi di pino che ti permette di aggirare gli alberi, creando gli effetti di volo di palla desiderati. In realtà molte bandiere possono essere attaccate solo da certi punti del fairway e quindi anche il tee shot va studiato e piazzato nel posto giusto.

La chiave è senza dubbio il controllo della distanza sui colpi al green: se nella maggior parte dei campi del Tour il raggio di errore può allargarsi fino a più di dieci metri senza gravi conseguenze, al Masters anche un solo metro può fare la differenza.

Qui i picchiatori sono favoriti ma Olazabal, Langer e Zach Johnson ci hanno insegnato che si può indossare la Giacca Verde anche tirando il drive a 250 metri, se poi sei in grado di esprimere una gran precisione nei colpi al green.

Zach Johnson nel 2007 si vietò di attaccare i par 5 in due. Risultato: 16 lay up ai par 5 e 11 birdie, la media più bassa del torneo.

Il Masters ti incolla alla tivù come nessun altro torneo: quando nell’ultima giornata i leader passano davanti alla clubhouse per andare sul tee della 10 si ha la stessa emozione che si vive guardando il finale di un capolavoro del cinema.

Il sole si abbassa, la tensione sale, le ombre degli alberi disegnano i fairway e il boato del pubblico interrompe il silenzio, attirando la curiosità di tutti e spaventando i giocatori in corsa per il titolo.

In quel momento, per chi ama il golf, non c’è posto migliore al mondo.