Ogni tanto mi viene da pensare che, a dispetto di tradizione, numeri e  apparenze, noi italiani abbiamo una spiccata predisposizione per il golf.

Non parlo certo della propensione al rispetto delle regole e al fairplay, purtroppo merce rara al di qua delle Alpi.

Parlo proprio dell’aspetto agonistico.

Come spiegarsi altrimenti il fatto che da una base tanto ristretta (novantamila giocatori a essere ottimisti e a voler chiudere gli occhi sui molti giocatori di burraco contrabbandati per assidui dei fairway) possano nascere così tanti campioni?

Ora può essere che per una magica combinazione di geni, talento, storia familiare e mille altri componenti si realizzi un cocktail esplosivo chiamato Francesco Molinari.

Possiamo anche tranquillamente accettare che il fratello Edoardo abbia la stessa stoffa e identiche potenzialità, seppure frenate da una serie di infortuni e contrattempi.

Ma poi come spiegarsi che con un numero di giocatori così esiguo l’Italia possa contare su 9 presenze nei primi 500 posti dell’ordine di merito mondiale?

La Germania – giusto per fare qualche raffronto – con 600mila tesserati ha solo sei giocatori tra i primi cinquecento, l’Olanda con 350mila ne conta cinque.

L’Austria, che di tesserati ne ha più o meno come noi, ne infila solo 3 tra i migliori 500 al mondo.

Il miracolo italiano, secondo alcuni, è spiegato dall’ottimo livello dei nostri maestri e dalle iniziative rivolte all’attività giovanile che da anni si susseguono in quasi tutti i nostri club.

Certamente queste sono argomentazioni valide, ma il caso di uno degli eroi dell’ultimo Open d’Italia ci deve far riflettere.

Francesco Laporta, primo degli azzurri in classifica finale con uno splendido settimo posto, è un ragazzo solare di 29 anni, nato a Castellana Grotte, in provincia di Bari.

A tredici anni ha cominciato a giocare a golf a San Domenico sotto lo sguardo di Pietro Cosenza, il maestro che lo ha poi seguito passo passo nella carriera sui green.

Da subito ha fatto vedere le sue qualità. Ma se in Italia la base dei giocatori è ristretta, in Puglia, dicono le statistiche, è ridotta al lumicino: gli iscritti alla Federgolf sono all’incirca 700.

Per il piccolo Francesco mettersi alla prova contro coetanei di pari livello è stata una bella impresa: treni o aerei verso il Nord per partecipare a gare importanti, misurarsi e mettersi in luce.

C’è di buono che a Laporta la determinazione non manca.

Non solo ha vinto in Italia e all’estero tra i dilettanti, ma nel 2013, dopo il passaggio al professionismo, si è sempre mantenuto su livelli apprezzabili frequentando tutti i circuiti europei e il Sunshine Tour, l’omologo sudafricano.

Quest’anno sta facendo vedere grandi cose sia sul Challenge, dove grazie al successo nell’Hainan Open è nelle prime posizioni dell’Ordine di Merito, sia sull’European, approfittando dei pur rari inviti che gli recapitano.

Morale: viaggia ora attorno al 160° posto del World Ranking, ha rinconquistato la carta per l’European Tour 2020 ed è entrato di diritto in quella valanga azzurra che fa man bassa di premi e piazzamenti sui green di mezzo mondo.

Non so se qualche università avrà voglia di impegnarsi in una ricerca scientifica sul Dna dei golfisti italiani.

Ma sono convinto, che se qualcuno vorrà indagare a fondo, il risultato non potrà che certificare una nostra predisposizione genetica al gioco del golf.

Soffocata da pregiudizi e vecchi stereotipi, ma sicuramente stampata nei cromosomi tricolori. Purtroppo non di tutti.

Nei miei, ad esempio, deve essersi cancellata lasciando, come sullo score, una fila di “x”.