Agli inizi di novembre l’Italia dello sport ha dato l’addio a Mario Cotelli, il condottiero dello squadrone che agli inizi degli anni ‘70 dominò lo sci alpino.

Quella pattuglia di campioni venne soprannominata “Valanga Azzurra”.

L’appellativo è frutto della inarrestabile inventiva di Massimo Di Marco, allora giornalista della “Gazzetta dello Sport” poi anima della rivista “Sciare”.

Dopo l’incredibile exploit degli sciatori italiani nello slalom gigante di Berchtesgaden, gennaio 1974, coniò nel suo resoconto questa fortunata espressione.

Era successo che cinque italiani si erano issati ai primi cinque posti della classifica: Piero Gros in vetta, poi, a seguire, Gustav Thoeni, Erwin Stricker, Helmuth Schmalzl e, al quinto posto, Tino Pietrogiovanna, autore di un’impresa incredibile essendo partito con il numero 45.

Fu probabilmente il punto più alto di un’epopea, quella della Valanga Azzurra appunto, che in Cotelli aveva trovato un timoniere sicuro.

SuperMario non era, nonostante fosse un ottimo maestro di sci, un tecnico in senso stretto (ad allenare i ragazzi ci pensavano Oreste Peccedi e Luciano Panatti) e neppure un manager puro, malgrado la laurea alla Bocconi.

Era tutte e due queste cose insieme ma, soprattutto, un grande comunicatore.

Con gli atleti prima, riuscendo a comporre i dissidi quando serviva, a provocarli quando invece era il caso di mettere pepe tra i moschettieri azzurri.

Con la stampa poi: nessun giornalista in quegli anni è mai tornato da uno scambio di battute con Mario Cotelli senza un argomento da titolo.

E l’attenzione sullo sci alpino, grazie alle vittorie ma anche grazie alla capacità di tenere desta la curiosità del pubblico su Valanga e dintorni, aveva raggiunto punte tali da dirottare generazioni di calciofili verso funivie e skilift, per provare l’emozione di un cristiania o di uno scodinzolo sulle piste innevate.

Tutti concordano su un punto: fu la Valanga Azzurra a innestare il boom dello sci alpino che in quegli anni toccò i suoi massimi storici.

Ma quando Cotelli capì che tra lui e la Federazione il rapporto si stava raffreddando, cambiò strada, dedicandosi a tempo quasi pieno alla comunicazione.

Dai calzifici alle terme, in molti hanno beneficiato delle sue idee e delle sue intuizioni.

Non dimenticò, ovviamente, lo sci, diventandone commentatore arguto sia durante le telecronache, sia sulle pagine del “Corriere della Sera”.

L’uomo della montagna si lasciò poi travolgere, come spesso accade, dal golf.

Se ne innamorò perdutamente come è successo a gran parte di noi, fino a diventare una delle colonne del Golf Club Valtellina, un gioiello alla periferia di Sondrio, la sua città.

Finendo in questo modo di completare il caleidoscopio di colori della sua vita: il bianco della neve, l’azzurro della Valanga, il blu del mare di Pantelleria che tanto amava, il verde dei green.

Il mondo dello sci lo ha salutato nella Collegiata di Sondrio. Campioni e campionesse, tecnici e allenatori con gli occhi umidi si sono stretti alla famiglia nell’addio.

Chicco, il fratello minore di Mario, ha accompagnato al pianoforte l’uscita del feretro suonando Signore delle Cime e il tema di C’era una volta il West.

Il mondo dello sci, dicevamo all’inizio, rimpiange le sue intuizioni, la sua professionalità, la sua comunicativa.

Il golf italiano dovrebbe darsi da fare per trovare un Cotelli del green, capace di trasformare, nel sentire comune,  questo sport da ozioso passatempo per riccastri ad attività di massa.

Proprio come accadde per lo sci negli Anni ‘70.