Milioni di persone in tutto il mondo hanno visto Billy Foster scoppiare in lacrime dopo la vittoria di Matthew Fitzpatrick allo U.S. Open a Brookline quest’anno. Ma non tutti sanno che questo signore di 57 anni ha all’attivo 40 anni di carriera accanto a nomi che hanno scritto pagine indelebili del golf. Uno su tutti Seve Ballesteros e poi Thomas Bjørn, Sergio Garcia, Lee Westwood, Darren Clarke e una parentesi con nientemeno che Tiger Woods. Personalità dirompenti che però non gli hanno mai regalato la gioia di essere chiamato major champion. Foster stava pian piano perdendo le speranze fino alla fenomenale performance di un ragazzo inglese di 28 anni…

Partiamo dalla fine, e dalla vittoria allo U.S. Open. Ti abbiamo visto in lacrime a Brookline dopo la vittoria di Fitzpatrick, mentre baciavi la bandiera della 18. Cosa significa per te vincere finalmente un major?

Difficile raccontare a parole cosa mi è passato per la mente sul green della 18, stentavo a crederci che dopo 40 lunghissimi anni fossi riuscito in questa impresa tanto desiderata. Ormai non me l’aspettavo più e, per questo, è stato ancora più magico. In tutta la mia carriera sono stato comunque molto fortunato. Ho preso parte a diverse Ryder Cup, ho portato la sacca ad alcuni tra i più forti e leggendari giocatori del pianeta. Westy (Lee Westwood) con me è diventato il numero uno al mondo. Sono successe molte cose belle ma mi sentivo una spada di Damocle sulla testa che pesava come un macigno e dopo esserci andato vicino numerose volte sono felice che Matt mi abbia regalato questa gioia immensa. 

La gioia incontenibile di Matthew Fitzpatrick e Billy Foster dopo la vittoria allo U.S. Open 2022

Dalla televisione sembrava che Matthew Fitzpatrick fosse molto più felice per te che per se stesso. Ti ha sussurrato qualcosa all’orecchio?

Sì, mentre mi tenevo la testa tra le mani si è avvicinato e mi ha bisbigliato “sei un major champion Billy”. Tutta la sua famiglia era in lacrime e sì, lo ammetto, era felicissima per me molto più che per il proprio figlio! Matt è stato impeccabile in quelle ultime 18 e agognate buche, ha preso 17 green su 18 e non ha sbagliato un colpo; poi quello dal bunker finale è stato la ciliegina sulla torta. 

Facciamo un passo indietro: come sei finito a fare il caddie?

A 16 anni lavoravo per mio padre come apprendista falegname, guadagnavo 20 sterline a settimana e venivo licenziato in media ogni due giorni. Avevo sempre avuto la passione per il golf ed ero un buon giocatore amateur quando nel 1981 ci fu un torneo nel mio golf club, il Bingley St Ives, nel West Yorkshire. Ho poi iniziato a lavorare sporadicamente come caddie girando per diversi circoli inglesi e dopo un paio d’anni, un amico mi suggerì di andare in Spagna per sei settimane e lavorare come caddie in diversi tornei dell’European Tour come l’Open di Spagna. Ho pensato fosse una buona idea e sono partito con 50 sterline e una bottiglia di salsa barbecue in tasca. Da lì, cambiò tutto. Incontrai Hugh Baiocchi che mi propose di diventare il suo caddie a tempo pieno, era il 1983. Che fare? Guadagnare 20 sterline a settimana come apprendista o vedere il mondo? Non ci ho messo molto a decidere anche se all’inizio è stata dura. I soldi scarseggiavano, non potevo permettermi di prendere aerei e hotel e spesso dormivo in autobus e treni. Confesso che una notte ho dormito addirittura in un cespuglio.

Quanto è cambiata la vita dei caddie da quando hai iniziato tu ad oggi?

In modo inimmaginabile. Una volta non c’erano tutte queste opportunità ma c’era più cameratismo. Eravamo tutti sulla stessa barca, ci si doveva arrangiare, non circolavano tanti soldi, non c’era cibo gratis e soprattutto nessun yardage book. Bisognava usare la propria testa e fare i calcoli a mente. Ma non cambierei nulla di quel periodo. È stata una bella scuola di vita e credo che sarebbe utile a molti ragazzi là fuori. Oggi, le opportunità sono infinite, hai il miglior cibo del mondo, jet privati, alberghi dedicati, sei coccolato, seguito e circolano veramente tanti soldi. 

Hai visto da vicino forse il più grande colpitore di palla di tutti i tempi. Raccontaci di Seve Ballesteros

Da dove iniziare! Ho trascorso cinque anni con Seve e ogni volta era in grado di lasciarmi senza parole. Il pubblico lo amava, lo venerava, quando camminava era come se avesse un’aura intorno a sé. Quando mi propose di diventare il suo caddie stentavo a crederci, era il mio idolo di sempre, all’apice della sua carriera e io un ragazzo che si era da poco avvicinato a questo mondo. Accettai la sua proposta e due settimane dopo mi arrivò a casa una sua lettera. Ce l’ho ancora incorniciata nel mio ufficio. 

Cosa c’era scritto?

Iniziava lodandomi, mi diceva che gli piaceva il mio atteggiamento in campo, la mia attitudine al lavoro ma due righe dopo mi metteva subito al mio posto elencandomi le sue condizioni: mai parlare con la stampa, il giocatore ha sempre ragione, non ci sarebbero dovute essere discussioni, dovevo fare le mappette per entrambi e gestirle con professionalità. Insomma, era molto esigente ma ho imparato a tirare fuori il carattere e tenergli testa altrimenti mi avrebbe sommerso nel giro di pochi mesi. Gli ho portato una ventata di spensieratezza alla quale non era abituato. È importantissimo non prendersi troppo sul serio e stemperare la tensione in campo con battute e prese in giro; ecco il segreto della mia longevità con un giocatore come Ballesteros. Ogni settimana vedevo tre o quattro colpi in cui mi cadeva letteralmente la mascella. Oggi i top player nemmeno penserebbero a eseguire determinati colpi che Seve aveva sempre in sacca. Questa era la differenza tra lui e i comuni mortali. 

Qual è il colpo più incredibile al quale hai assistito

Hazeltine, buca 16, un par 4 con l’acqua tutta sul lato destro e con il green a penisola. In passato, c’era una grande quercia prima che venisse abbattuta da un fulmine e Seve si ritrovò la pallina proprio lì dietro. Era a circa 145 metri dal green e il ferro da usare sarebbe stato un 8. Ma, ovviamente, ha tirato fuori dalla sacca un 3, ha aperto la faccia e ha mirato a 60 metri a sinistra del bersaglio ed è riuscito a far girare la palla piazzandola perfettamente in centro green. Ecco, quello è stato il colpo più impressionante al quale io abbia mai assistito, molto più che quello effettuato alla 18 di Crans. In Svizzera regnava l’immaginazione e la follia, ad Hazeltine c’era solo pura tecnica. 

Da un fuoriclasse a un altro. Parliamo Tiger Woods? 

Eh, fare da caddie a lui è stata un’altra mia grande botta di fortuna. Era il 2005 e la moglie di Steve Williams stava per avere un bambino, quindi non era disponibile per la Presidents Cup. È stato lì che Tiger chiese a Darren Clarke, per il quale lavoravo all’epoca, se potessi andare con lui in Virginia. Il tempo di fare le valige ed ero già sul volo diretto verso la stella del golf. Ma quello che mi piacerebbe raccontare non è il Tiger giocatore perché quello lo conosciamo tutti, ma il Tiger uomo, un sergente di ferro sul campo da golf ma con un’anima estremamente delicata ed educata. 

Cosa intendi?

Woods mi ricorda spesso Seve, entrambi due caterpillar, due star sempre sotto la lente di ingrandimento. Alla Presidents la gente lo strattonava, gli tirava la maglia, gli urlava nell’orecchio e si vedeva quanto fosse infastidito e pietrificato allo stesso tempo. Fu in quel momento che mi rivolsi a lui e gli dissi che potrei essere il miglior giocatore che sia mai esistito, un miliardario con un potere d’acquisto sconfinato ma che mai avrei scambiato la mia vita con la sua. Lui mi ha guardato, mi ha sorriso e mi ha detto: “Grazie per le tue parole Billy. Io invece la mia vita con te la scambierei subito!”. Era speciale. Dico sempre ai miei figli che le parole “per favore” e “grazie” non devono mai mancare nel loro vocabolario e Tiger faceva lo stesso. Ecco, questa sua educazione e rispetto delle persone e del prossimo sono gli aspetti che più mi hanno impressionato.

Quanta elasticità mentale ci vuole a fare da caddie a tutti questi campioni?

Sono quattro gli ingredienti che un buon caddie deve possedere: una schiena forte e resistente, un’ottima capacità di contare, una personalità compatibile con il giocatore e sapersi adattare. Ogni giocatore è diverso dagli altri e bisogna essere bravi a capire nel giro di brevissimo come approcciarlo. Con Westwood facevo il giullare di corte, si rideva e si scherzava come bambini tra un colpo e l’altro. Alcuni vogliono che tu fornisca informazioni volontariamente, altri no. Con Darren Clarke dovevo pensare a tutto, Sergio Gracia invece non voleva troppe informazioni. Ho dovuto adattarmi a questo e ai loro sbalzi d’umore. I grandi protagonisti del Tour sono tutti diversi e, diciamolo apertamente, tutti psicopatici, chi più, chi meno (ride). 

Hai disputato ben 15 Ryder Cup. Qual è stata la tua preferita?

Senza alcun dubbio quella del 2006 al K Club. È stata un’esperienza straordinaria, tutto era perfetto: il pubblico, l’affiatamento che si era creato con la squadra, l’atmosfera, una grande emozione e commozione perché Darren (Clarke) aveva da poco perso la moglie, e anche il risultato non è stato male… Abbiamo dato una bella lezione agli americani.

Darren Clarke e Billy Foster alla Ryder Cup del 2006 al The K Club

Hai aneddoti da raccontarci di quell’edizione?

Il sabato mattina dei foursome Darren Clarke era in coppia con Lee Westwood contro Phil Mickelson e Chris DiMarco. Lee giocava come Gesù Bambino e Darren diciamo come me, per non essere troppo volgare. Praticamente in campo c’era un giocatore solo della squadra europea. Così intercettai il capitano Ian Woosnam e gli dissi che Darren era un disastro e che dovevo pensare al bene della squadra e non a quello del mio giocatore. Woosie lo levò dai match del pomeriggio e Darren smise di parlarmi per 24 ore. Domenica mattina prima dei match singoli sono entrato negli spogliatoi e gli ho detto che avrebbe potuto licenziarmi se avesse voluto. Ma se non aveva intenzione di farlo, di alzarsi in piedi, uscire là fuori a testa alta e vincere quella benedetta Ryder Cup per Heather. Tre ore dopo avevamo vinto, eravamo entrambi in lacrime, mi ha abbracciato e mi ha detto che mi voleva bene. 

Chi è il giocatore che porterai sempre nel cuore?

Seve Ballesteros senza nemmeno pensarci. Il ricordo di lui, della sua personalità dirompente e del suo gioco magico non li scorderò mai.

C’è qualcuno che invece il cuore te l’ha spezzato?

Anche qui è facile, Thomas Bjørn al Royal St George’s del 2003. Sono stato a tutti gli Open Championship dal 1975 senza mai vincerne uno. Ho all’attivo oltre 40 vittorie ma rinuncerei a tutte per la Claret Jug. Ci sono andato vicino con Clarke nel 1997 a Troon e con Westwood nel 2001 al Lytham & St Annes ma quell’edizione con Bjørn me la porterò nella tomba. Aveva vinto! Eravamo alla 16 e aveva tre colpi di vantaggio, quel giorno era la buca più facile ma invece che tirare in centro green la palla si è aperta ed è finita in bunker. Il resto è storia: tre colpi per uscire e addio al sogno di vittoria. Sul tee della 16 mi vedevo già con una birra in mano per festeggiare. Quella sera di birre me ne sono fatte dieci, ma per un altro motivo…

Dopo 40 anni di carriera cosa vuoi ancora fare?

Voglio vincere un Open Championship, desidero tantissimo mettere le mani su quella brocca d’argento. Quel major è in assoluto il mio preferito, mentalmente il più impegnativo e le ultime 9 buche sono uno spettacolo speciale e continuo dove i margini di errore sono minuscoli. Lì, il lavoro del caddie è fondamentale, basta un minimo errore o una minima distrazione per far sì che la palla del giocatore finisca ingiocabile. 

Quando hai intenzione di attaccare la pettorina del caddie al chiodo?

Ho 57 anni e credo di avere ancora qualcosa da dare a questo sport ma vorrei anche rallentare e godermi la famiglia anche se non mi vedo a stare davanti alla TV tutto il giorno. Diciamo che mi do ancora tre anni buoni poi, alla soglia dei 60, ci risentiamo e vediamo come sono messo con gli acciacchi alla schiena.