Sabbia, molta sabbia che, golfisticamente parlando, si traduce nella parola bunker, il comune denominatore ricorrente di Whistling Straits.

Una volta qualcuno si è preso la briga addirittura di contarli scrupolosamente: 967.
Uno, quello che corre lungo la parte sinistra del par 5 della buca 5, misura quasi 300 metri.
A un estremo la 8, con 102, e all’altro la 12 e la 14, con appena 18. Una quantità di questi bunker possono essere raggiunti solo con uno shank, o un gancio simile a quello che Rory McIlroy fece alla 10 del Masters 2011. Ne rimangono tuttavia in gioco abbastanza da far venire gli incubi anche ai più forti giocatori del mondo. Quasi tutti sono aree incolte, le cosiddette ‘waste area’, e solo una ventina vengono considerati bunker: la distinzione non è così chiara e Dustin Johnson se la ricorda ancora molto bene.
Nel PGA Championship del 2010 appoggiò il ferro 4 sulla sabbia prima di tirare il colpo al green della 18, giocandosi la possibilità di andare al playoff con Martin Kaymer e Bubba Watson, perdendo così clamorosamente il suo primo major.

Ma 967 è solo il numero di quella volta che il giornalista Ron Whitten e un caddie, Bob Palm, trascorsero undici ore spalmate su un paio di giorni a vagabondare per i 230 ettari della proprietà. In molti avvallamenti oggi è cresciuta l’erba e non è più stata tagliata. Si narra che ogni tanto il grande e compianto Pete Dye, l’architetto che disegnò il percorso, arrivava per fare delle modifiche e ne faceva ripristinare qualcuno. Il sito di Whistling Straits adesso fissa il numero a “più di 500”.

La risposta più precisa è che nessuno sa esattamente quanti bunker e aree incolte ci siano sul campo in cui dal 24 al 26 settembre si disputerà la 43esima Ryder Cup.

La buca 16 di Whistling Straits

Quello che viene messo al terzo posto nella classifica dei campi pubblici americani 2020/21 appena pubblicata da Golf Digest era in origine una piatta distesa agricola sulla sponda occidentale del lago Michigan, una dozzina di chilometri sopra la città di Shegoygan, a metà strada fra Milwaukee e Green Bay.
Negli anni Cinquanta l’esercito americano ne fece una base di addestramento per l’artiglieria anti-aerea: droni venivano fatti volare sopra il lago e i cannoni sparavano da Camp Haven.
Quando lo chiusero, i terreni furono comprati dalla Wisconsin Electric Power Company, che voleva costruirci un impianto nucleare. Ma un paio di incidenti in Idaho e Michigan, e soprattutto la polemica sollevata dal film “Sindrome Cinese” sui pericoli dell’energia atomica, congelarono il progetto.

È qui che entra in scena Herbert Vollrath Kohler jr, detto Herb. Presidente e amministratore delegato della Kohler Co. dal 1972, ha fatto diventare l’industria di famiglia, fondata dal nonno nel 1873, uno dei maggiori marchi mondiali di sanitari e motori diesel.
Con un patrimonio personale stimato da Forbes in oltre 6 miliardi di dollari, Herb è un golfista tanto entusiasta quanto mediocre, con 18 di handicap. Più che altro, è appassionato dal gioco dei pro. Aveva incontrato Pete Dye negli anni ’80, quando gli commissionò il percorso di Blackwolf Run. Voleva un campo che potesse ospitare un giorno un major e perché no, anche la Ryder. Fece diversi viaggi in Irlanda con l’architetto.

Quando vide il terreno a un quarto d’ora dalla cittadina che porta il nome di famiglia, all’interno di Sheboygan, firmò un assegno in bianco: “Voglio qualcosa che sia all’altezza di Royal Portrush e di Ballybunion”, disse a Dye. “Fallo il più simile che puoi”.

Sono stati necessari 13.126 camion carichi di terra per trasformare una distesa piatta in un paesaggio che sembra plasmato nei secoli dal vento e dalla pioggia – oltre che, per riempire i bunker, 80mila metri cubi di sabbia, un po’ trovata sul sito e un po’ portata da una cava distante una quindicina di chilometri. L’ultimo tocco è il gregge di pecore, razza Scottish Blackface e campanella al collo, che in stagione pascola lungo il percorso e bruca il rough come succede sui campi delle isole britanniche. Il genio di Pete Dye è stato quello di essere riuscito a rendere “naturale” il più artificiale dei percorsi. Ne è uscito un capolavoro, lo Straits Course (le 18 buche che ospitano la Ryder, ma non è da meno pure l’altro tracciato, l’Irish, di 6.585 metri), un par 72 di 7.123 metri inaugurato nel 1998 e frequentato abitualmente sia dai pro (ha ospitato tre PGA Championship e uno U.S. Senior Open) che dai dilettanti (per i tee-time è sempre necessario prenotare in abbondante anticipo, nonostante costi oltre 400 dollari). Per la Ryder Cup di quest’anno sarà giocato par 71, per un totale di 6.757 metri.

“Dovrei dirlo con un minimo di modestia – si lasciò scappare una volta Pete Dye – ma in vita mia non ho mai visto niente del genere. In nessun posto. Punto”. Solo due cose non portano il suo marchio. Il primo è il nome, inventato da Herb Kohler un giorno che era venuto a vedere come procedevano i lavori durante la costruzione del percorso. Era una giornata di forte vento, soffiava da nord a sud e sibilava – whistle, in inglese – fra i gruppi di alberi (molti dei quali nel frattempo sono stati abbattuti in omaggio a una delle caratteristiche dei links), mentre la schiuma bianca di grandi onde copriva la battigia – che sul lago Michigan viene chiamata straits. Il secondo è lo stile architettonico della clubhouse, che ha le caratteristiche dei cascinali irlandesi.

Il campo è disegnato su una doppia ellisse, con partenza dalla – e ritorno alla – clubhouse. Il lago Michigan è visibile da tutte le 18 buche, perché quelle interne sono state disegnate sopra quelle che lo costeggiano. Tutti i par 3 sono esterni, sull’acqua, e messi in modo da alternare la direzione del vento, sia esso favorevole, contrario o di traverso. Le correnti d’aria, qui, sono la grande incognita. Il vento si alza, o cambia direzione, all’improvviso, facendo calare la temperatura di una decina di gradi in cinque minuti e trasformando una splendida giornata in un inferno nebbioso dove non si vede il punto di caduta della pallina negli approcci al green. 

Dai back tee Whistling Straits misura oltre settemila metri ed è ingiocabile per chiunque non sia un professionista o abbia un handicap superiore a 3.

“Avevo sentito che ci sono dieci buche difficili e otto impossibili”, disse Lee Westwood dopo averci fatto il primo giro di prova alla vigilia del PGA Championship del 2004. “Sto ancora cercando di capire quali siano quelle difficili”. La difficoltà è aumentata dalla relativa larghezza dei fairway, che non misurano più di una ventina di metri nel punto di caduta dei drive.

La signature hole è la 17, un par 3 di 204 metri, battezzata “Pinched Nerve”, nervo compresso, perché può provocare dolori simili. Ha il lago a sinistra e il green è segnato da una pronunciata costa di fronte a verso l’acqua, mentre il lato destro è protetto da una montagnola (con annesso bunker, naturalmente). Con il vento contrario può far cambiare la scelta di diversi bastoni. Mandare qui la palla nel dirupo rende quasi impossibile il par.

Il par 3 più bello è la 7, 202 metri dai Ryder Cup tee. L’hanno chiamata “Shipwreck”, naufragio o relitto, perché è come ci si sente se non si prende il green ma si finisce sulla collina di sinistra o nel dirupo di destra, che piomba nel lago. Il miglior par 4 è la 13, un dogleg a destra che misura 369 metri. Il nome – “Cliffhanger”, suspense – deriva dal fatto che il green è sospeso a metà strada fra il fairway e il lago e il colpo di approccio è in discesa. Occhio anche alla 11, trasformata da par 5 a 4 per la sfida USA-Europa, 475 metri di buca. Il suo nome, “Sand Box”, non poteva essere più appropriato: dal battitore si vede più sabbia che erba.

E poi, naturalmente c’è la 18, un par 4 di 471 metri. Si chiama “Dyeabolical” – e non ha bisogno di traduzione. Uscire con il par significherà probabilmente la vittoria della buca. Dal tee shot la linea più sicura è quella di destra, che lascia un ferro medio-lungo al green di secondo. Se invece si gioca aggressivi si opta per il lato sinistro ricco di qualsiasi pericolo. Qui serve un tee shot con un carry di oltre 280 metri per volare bunker e dune di ogni genere. Ma attenzione: se si va troppo lunghi, l’approccio al green, con annesso frontalmente un ostacolo d’acqua, sarà un delicato colpo in discesa. Il green è a forma di quadrifoglio e ha pendenze tali che spesso ci si trova a tirare putt che seguono la linea di un dogleg. 

Ma, se non altro, è l’ultima sevizia di Pete Dye a Whistling Straits. Ha adeguato il suo lavoro a una convinzione profonda racchiusa in una delle sue frasi simbolo: “Il golf non è un gioco equo. Perché allora costruire un campo equo?”.

La buca 2 Whistling Straits