Il primo che mi parla un’altra volta di “Spirit of the game” lo mando a quel paese con biglietto di sola andata.

Mi avete preso in giro per un mucchio di anni con la storia del gioco inglese, fatto da veri sportivi, dove non è neppure necessario l’arbitro perché i giocatori sanno come adeguarsi alle regole e si infliggono la penalità da soli.

E nel dirlo tutti, ma proprio tutti, avete calcato la mano sull’anima british del gioco, secondo una vulgata che vorrebbe i sudditi di Sua Maestà persone con grande self control, rispettose delle regole, inflessibili di fronte a una italica furbata.
E io per tutti questi anni ci ho creduto, immaginandomi in un fairway del Surrey o del Lancashire anche quando giocavo dalle parti di Lainate o di Castel Volturno. E, lo confesso, mi sentivo un po’ inadeguato, impregnato come sono di usanze latine, di figli “piezze ‘e core”, di tavolate vocianti, di passione per lo sport soprattutto quando è vincente.

Ci sono voluti gli Europei di calcio per aprirmi gli occhi

La sportività non abita al di là della Manica. O, almeno, da quelle parti ormai sembra in minoranza. Ora è inutile che vi ricordi cosa è successo a Wembley e dintorni a metà luglio.
I fischi all’inno nazionale, i tuffi in area di Sterling, le medaglie d’argento tolte in fretta e furia, il crollo di presenze inglesi nei ristoranti e nelle pizzerie dell’Inghilterra, la petizione per chiedere di rigiocare la partita “con un arbitro meno di parte”.
Una inedita specie di Mulligan calcistica che farebbe sorridere se a proporla non fossero stati proprio le vestali del “fair play” e dello “spirit of the game”.

Noi mediterranei, si sa, la faccia di bronzo ce l’abbiamo non solo per i raggi del sole che da queste parti arrivano più copiosi rispetto alle latitudini più nordiche. Siamo melodrammatici, amiamo gesticolare, parlare per iperboli, di qualunque cosa facciamo un caso. Ci dividiamo in due fazioni dai tempi degli Orazi e dei Curiazi, fatichiamo a trovare vincoli di unità e ci trasciniamo la maledizione dei mille campanili, per cui che non è con il mio paesello è contro di me.
Non solo: siamo tutti, chi più chi meno, cintura nera di scuse e giustificazioni.

Il grande Leo Longanesi arrivava a suggerire che sul tricolore si stampasse il motto “tengo famiglia”, sempiterno tentativo di impetrare indulgenza quando pescati con le mani nella marmellata.

Siamo il Paese dei furbi, di quelli che saltano la coda e frodano il fisco, aspettarsi qualche sotterfugio da noi è messo nel conto da buona parte del mondo civilizzato.

E invece, stavolta, quelli probi siamo proprio noi

Non sono certo che la correttezza sarebbe stata dello stesso tenore se a perdere ai rigori fossimo stati noi, ma da cronista mi limito a osservare quello che succede, non quello che sarebbe potuto succedere.

E da quella sera di Wembley mi sento caricato di una  nuova responsabilità. Il testimone della sportività, della correttezza, dello spirito del gioco  ce lo siamo trovato in mano di colpo. Ce lo hanno passato Mancini e la sua banda azzurra. Lasciarlo adesso cadere per terra sarebbe un gesto oltremodo stupido. Per cui, cari cofrequentatori di faiway e di green, concentratevi con attenzione su quei semplici calcoli matematici che consentono di stilare una somma corretta dei colpi tirati in campo. Non urtate “inavvertitamente” la pallina per migliorare la sua posizione sull’erba, non trovate miracolosamente in rough palle che erano partite con decisione verso laghi voraci o fuori limite assassini. Comportatevi come si deve. Lo vuole lo “Spirit of the game”, che dalla sera dell’11 luglio si deve dire “spirito del gioco”. Con buona pace di Sterling, del principe William e di tutta l’Inghilterra.