Mentre l’Italia era alle prese con l’inizio della Fase 2 e i golf club dello Stivale cominciavano a spalancare le proprie porte in ordine sparso, in contemporanea, dall’altra parte dell’Atlantico, negli Stati Uniti ma anche al di là della Manica, in Inghilterra, i piani alti del PGA e dell’European Tour erano (e sono tuttora) alacremente al lavoro per garantire un piano di ripartenza in totale sicurezza per i propri tornei professionistici.

Nonostante il quadro sanitario mondiale ancora molto confuso e preoccupante, Jay Monahan, il CEO del circuito a stelle e strisce, è sembrato quello più saldo nelle sue intenzioni: grazie all’esperienza maturata nei tornei dei mini circuiti come lo Scottsdale Open, tornei disputati a porte chiuse mentre il PGA Tour aveva ancora le serrande abbassate a causa dell’epidemia, e grazie anche alla collaborazione continua con la politica (Trump in primis), con i medici e i giocatori del Players Advisory Council, a inizio maggio il boss del Tour americano è stato in grado di ufficializzare non solo una schedule totalmente rinnovata, ma anche e soprattutto il protocollo sanitario per far giocare i pro nella massima sicurezza.

Dieci tornei cancellati per il lockdown, altri trenta in programma dall’11 giugno all’11 dicembre, tre major posticipati nella seconda parte di questo disgraziato 2020 e una Ryder Cup (per ora) confermata dal 25 settembre a Whistling Straits: questo il programma agonistico del PGA Tour.

Molto più complessa, invece, l’organizzazione sanitaria alle spalle del circo golfistico: riuscire a spostare, in totale sicurezza da un torneo all’altro e da uno stato all’altro, oltre trecento persone tra giocatori e caddie, si preannuncia impresa non da poco.

Per riuscirci, Monahan ha letteralmente blindato non solo i percorsi di gioco (almeno i primi 4 tornei saranno disputati senza pubblico), ma anche e soprattutto la vita stessa delle stelle del Tour: senza le famiglie e i manager al seguito, i campioni e i loro caddie saranno testati giornalmente all’arrivo al percorso di gara con tamponi e misurazione della febbre.

E ancora: saranno alloggiati negli stessi hotel, con la raccomandazione di non andare a cena nei ristoranti e, più in generale, di limitare al massimo gli spostamenti nelle città.

Azzerate le ProAm inaugurali dei tornei e gli eventi legati agli sponsor, chiuse le sale stampa e permesse solo le interviste all’aperto, caddie e giocatori si sposteranno da una gara all’altra su voli charter organizzati dal Tour.

Nel caso malaugurato si trovasse uno di loro positivo al Covid19, quest’ultimo sarà messo immediatamente in quarantena e il circuito si preoccuperà di farlo rientrare in sicurezza a casa.

In campo, sarà permesso ai caddie di rastrellare i bunker e di toccare le aste delle bandiere, salvo disinfettare il tutto prima di allontanarsi.

Queste dunque le linee guida per la ripartenza del PGA Tour; più confusa, invece, la situazione dell’European Tour, che paga lo scotto di avere i suoi tornei organizzati in Paesi assai diversi, con politiche e situazioni sanitarie (e non solo) totalmente differenti.

A metà maggio tra i giocatori circolava una mail di Keith Pelley, il CEO del circuito del Vecchio Continente, in cui si descriveva il tentativo di mettere in piedi a partire da luglio (probabilmente dal British Masters di fine mese) ventiquattro appuntamenti fino a dicembre.

Dalla stessa mail, inoltre, si evincevano due notizie importanti: la prima, che tutti i giocatori in possesso della cosiddetta “carta” per la stagione 2020, l’avrebbero mantenuta anche per il 2021; la seconda, che a fine stagione non ci sarebbe stata la consueta Qualifying School per accedere al Tour maggiore.

Tutto congelato, dunque, se non fosse per la voce non confermata (a metà maggio) secondo la quale i primi cinque della Race to Mallorca del Challenge Tour potrebbero vedersi accreditata a fine stagione la carta per il circuito maggiore dell’anno prossimo.

E anzi, a proposito del Challenge: se lo European Tour piange, il circuito cugino piange calde lacrime.

Con due soli tornei disputati a febbraio e col resto della stagione cancellato da inizio marzo, si discute di un re-start del Challenge da metà luglio, con dodici tornei confermati (per ora) e due posticipati con la data ancora da definire.

Nel mentre, con Keith Pelley che in Europa aveva il suo bel da fare a rappezzare i circuiti del Vecchio Continente, in Corea del Sud, dove il Covid19 è più tracciato di un pacco DHL, il golf dei pro, anzi delle proette, ripartiva il 14 maggio con un torneo del ricco KLPGA Tour; negli States, invece, le signore dell’LPGA Tour hanno rimandato la ripresa delle ostilità a metà luglio: avranno meno tornei, dicono, ma montepremi più alti grazie a sponsorizzazioni spalmate su meno date.

Stesso ordine di pensiero per il LET che riapre i battenti il 16 luglio in Spagna e prosegue con quindici tornei fino a chiudere la stagione a novembre in Costa del Sol.

Questo in definitiva il quadro dei circuiti pro: la sensazione che se ne evince è di grandi sforzi e, contemporaneamente, di estrema fragilità.

Mancano pochi giorni al ritorno in campo dei big, ma, diciamoci la verità, paiono intere ere geologiche.