Quello di Winged Foot lo scorso settembre è stato il primo U.S. Open della storia disputato in assenza di pubblico.

Ho avuto la fortuna di viverlo di persona, in veste di coach di Renato Paratore, qualificatosi grazie alla splendida vittoria ottenuta nel British Masters a luglio.

Inutile dire che è stata un‘esperienza stupenda: era il mio quinto U.S. Open e posso garantirvi che la mancanza del pubblico non ha tolto nulla al fascino di questo torneo, tanto meraviglioso quanto difficile.

Per i privilegiati addetti ai lavori è stato come vivere un sogno irrealizzabile: niente traffico per arrivare al campo e piena libertà di seguire qualsiasi match senza dover lottare per farsi strada fra i fan.

Il tracciato non ha assolutamente deluso le aspettative e, come da tradizione, è andato via via indurendosi di giorno in giorno, grazie anche alle splendide giornate di sole e vento che hanno permesso di rendere fairway e green duri come il parquet di casa.

Il primo approccio con il campo è stato quasi comico: la domenica mattina siamo andati a fare 9 buche e abbiamo provato alcuni colpi dal rough intorno ai green.

Il taglio era talmente alto, fitto e duro, che i primi tentativi di approccio hanno mosso la palla di pochi centimetri…

In un’occasione la palla colpita da Renato, dopo aver trovato sul suo cammino un ciuffo di erba molto resistente, è addirittura rimbalzata indietro!

Impossibile quindi avere il minimo controllo del colpo: per fare la distanza richiesta occorreva imprimere una velocità almeno dieci volte superiore alla norma.

Fortunatamente qualche top player si è lamentato e martedì mattina hanno deciso di portare il manto erboso dal parrucchiere per accorciare e sfoltire la capigliatura.

Per abbassare l’altezza del rough intorno ai green sono state utilizzate addirittura delle macchine singole!

Un vero spettacolo vedere una ventina di greenkeeper accerchiare i green, ad uno ad uno, e procedere alla delicata operazione.

Condizioni estreme quindi, alle quali i giocatori europei sono sicuramente poco abituati rispetto a chi gioca da anni sul Pga Tour.

È vero che anche l’Open Championship e altri tornei nel Regno Unito si giocano con caratteristiche simili, ma non dimentichiamoci che i links sono disegnati per essere giocati con vento e terreno duro, mentre i parkland americani, essendo decisamente più lunghi e con ingressi al green più punitivi, diventano davvero difficili da domare in queste condizioni.

Paratore ha giocato un golf straordinario: rispetto al gioco espresso la 31esima posizione gli sta davvero molto stretta.

Essendo arrivati con cinque giorni di anticipo siamo riusciti a preparare la gara molto bene.

Per un percorso normale cinque giorni sono davvero un’infinità, si rischia di arrivare alla gara senza le giuste energie mentali.

Ma se parliamo di campi da major, posso garantirvi che ogni giorno si impara qualcosa di nuovo.

Come programma pre gara abbiamo scelto quotidianamente di fare solo 9 buche negli orari meno affollati, per poter studiare al meglio i minimi dettagli dei green e le varie posizioni di bandiera che avrebbero potuto utilizzare durante la competizione.

Il test più importante, che si deve sempre fare nelle prove campo dello U.S. Open, è quello del livello di attrito che il rough genera sul proprio bastone nella fase pre impatto.

Mi spiego meglio: è importante stabilire fino a dove un giocatore, a seconda delle sue caratteristiche tecniche, può osare nell’affrontare un colpo dal denso rough che costeggia i fairway.

Il motivo ? Perché a Winged Foot, per quanto puoi tirare bene la palla dal tee, devi purtroppo mettere in preventivo che, nelle giornate di vento, non prenderai mai più del 50% dei fairway.

È d’obbligo quindi familiarizzare per bene con il rough, se vorrai uscirne vivo!

Renato ha quindi ripetuto parecchi colpi dal rough durante i giri di prova, in modo da capire quale fosse il limite da non oltrepassare.

Alla fine abbiamo concluso che fino al ferro 8 esisteva una buona possibilità di far partire la palla in maniera decente, dal ferro 7 in giù invece nessun bastone rendeva di più in termini di distanza, ma al contrario aumentava in modo considerevole il rischio di errori pericolosi.

Il ferro 4 per assurdo, avendo Renato un modello utility simile all’ibrido, messo con la faccia leggermente aperta, riusciva a penetrare discretamente nel rough: di volo non rendeva comunque mai più del ferro 8, ma sfruttava bene i fairway duri e riusciva quindi a rotolare fino a distanze interessanti.

In poche parole Paratore provocava una ‘flappa’ intenzionale, un colpo rischioso ovviamente ma in certe occasioni molto redditizio.

L’altro settore che abbiamo esercitato molto bene pre gara sono state le distanze dagli 80 ai 100 metri.

Normalmente questo tipo di colpo si allena in ottica dei secondi ai par 4 corti o dei terzi ai par 5 lunghi.

A Winged Foot era invece la distanza tipica in cui ti trovavi nei colpi di recupero, quelli che ti lasciavi come terzi ai par 4 quando mancavi il fairway e trovavi la palla sommersa nel rough.

Come dicevo in precedenza, la prestazione di Paratore è stata eccellente: le prime nove buche del difficile giro finale ci avevano fatto sognare un bel Top 10.

Al giro di boa questo obiettivo era davvero a portata di mano.

Un mancato birdie alla 9, par 5 reso facile da Renato in virtù di una bomba in centro pista di 360 metri con il driver, e uno sfortunato doppio bogey alla 10, il primo del torneo fra l’altro, hanno reso il cammino più difficile e hanno allontanato il nostro portacolori dalle prime posizioni.

È stata comunque una prestazione molto soddisfacente per il giovanissimo Renato.

La cosa più importante che ha portato a casa è stata sicuramente la consapevolezza di poter competere per le prime posizioni anche in un major, il che fa ben sperare per il futuro.

L’organizzazione è stata impeccabile come sempre: a livello di ospitalità, di attenzioni e di facilities gli americani sono davvero formidabili.

L’unico dettaglio che mi ha lasciato un po’ perplesso è stato il protocollo Covid-19.

Nelle settimane precedenti la nostra partenza per New York avevo ricevuto una dozzina di e-mail e ho compilato almeno quattro questionari, oltre ad aver giustamente sostenuto sia il test sierologico che il tampone in Italia.

Una volta atterrato a New York però non mi è stato chiesto nessun certificato medico, solo la classica misurazione della febbre e qualche domanda riguardante lo scopo della visita. Dieci minuti dopo il ritiro bagagli eravamo già in taxi.

Ci siamo recati subito al centro medico dello U.S. Open, dove ci hanno eseguito il tampone che consentiva la partecipazione al torneo.

Una sola ora di attesa per il risultato e via libera per l’accesso al golf. Dopo questo test ognuno in realtà era però libero di organizzare la propria settimana in modo autonomo.

Era disponibile un hotel di riferimento ma era consentito anche recarsi in qualsiasi altra struttura, sia a dormire che a mangiare.

Niente ‘bolla di contenimento’ quindi, come invece si usa fare in tutti i tornei dell’European Tour, solo raccomandazioni e tanta fiducia nel buon senso e nel corretto comportamento di giocatori, caddie, coach, fisioterapisti, media, arbitri e volontari.

In effetti, dopo aver visto la mole di lavoro e la quantità di volontari che hanno reso possibile questo torneo, ho realizzato che nessuna struttura avrebbe comunque mai potuto logisticamente garantire l’opportunità di creare una bolla sicura per tutte le persone coinvolte nell’enorme macchina organizzativa dello U.S.Open.