Mio nonno, che non sapeva l’inglese ma parlava, oltre a un ottimo italiano, un dialetto meneghino fiorito e pirotecnico, li chiamava “rumpiball”.

Si riferiva a personaggi, atteggiamenti, azioni ripetute che, alla lunga, sfibravano anche la pazienza più durevole e così facendo intaccavano l’integrità del prezioso apparato riproduttivo del quale gli umani sono dotati.

Oggi, che il dialetto si va perdendo per strada e l’inglese è diventata la “koiné” del mondo globalizzato, li chiamano stalker. 

C’è in effetti una variante importante: il rumpiball del nonno quasi mai utilizzava la violenza per triturare i cabasisi al prossimo.

Lo stalker si porta dentro forme più  meno virulente di brutalità e  sopruso.

Ma nella società che il filosofo Bauman definiva “liquida”, anche la gamma dello stalking ha mille sfumature e millanta tonalità.

C’è quello  brutale, ma anche quello subdolo che all’inizio non si annuncia come tale, lo diventa dopo, per il continuo riproporsi, una specie di tormentone che manda fuori dalla grazia di Dio anche il più santo degli asceti.

Lo sapevamo benissimo quando, ragazzini, ci si divertiva a chiamare al telefono un numero a caso per chiedere, a turno, “Scusi, c’è Arturo?”. Alla risposta negativa dello sconosciuto interlocutore, bisognava essere lesti a fingere delle scuse e a mettere giù la cornetta.

Dopo una ventina di queste telefonate, mentre all’altro capo del filo si percepiva la crescente insofferenza e montava la rabbia, bisognava, con voce pacata annunciarsi: ”Buongiorno, sono Arturo. Per caso mi ha cercato qualcuno?”.

Oggi, con i progressi dei mezzi di comunicazione di massa, questi ingenui vagiti dei primi stalker tecnologici sembrano preistoria.

Ma l’usanza mi è tornata prepotentemente alla mente guardando in tv uno degli ultimi major. Io capisco che la pubblicità non solo è l’anima del commercio, ma è il pane delle tv commerciali.

Quindi non mi scandalizzo se tra un putt e l’altro vengono infilati spot a raffica.

Chiedo però, da abbonato ligio alle scadenze e da spettatore, prima ancora che golfista, un minimo di turn over nei comunicati commerciali.

Per quattro giorni ho odiato le tartarughe marine, altro che pensare di adottarne una. Non parliamo della voce di Pieraccioni e del moccioso con la lampadina in mano, me li sognavo anche di notte e con animo piuttosto bellicoso.

Mi spiace oltretutto che a infastidirmi fossero campagne pubblicitarie ispirate a temi sociali: il rispetto dell’ambiente e degli animali così come l’aiuto ai giovani malati di diabete.

Oltre a darmi noia, mi facevano sentire un essere spregevole, come se ce l’avessi con le tartarughe e i piccoli diabetici invece che con  i programmatori del canale.

Non sono un legale, non mi trovo a mio agio tra codici e codicilli. Ma ho il sospetto che una causa per stalking i golfisti italiani potrebbero intentarla.

Una volta, per  protestare contro la pubblicità che cominciava a farsi largo nei film in tv,  si diceva che un’emozione non può essere interrotta.

Adesso, che ci siamo tutto sommato rassegnati e, diciamocelo, addirittura troviamo simpatici alcuni spot, chiediamo che almeno non ci vengano inflitti sempre gli stessi.

I tormentoni, soprattutto d’estate, sono una tradizione consolidata,  d’accordo. Ma c’è un limite a tutto. E i golfisti – a parte le escandescenze di Patrick Reed – in genere riescono a controllarsi meglio degli altri.

Ma non mettete a dura prova la loro pazienza. Una class action per stalking.

Ma non contro le tartarughe, mi raccomando.