Dal 2018 la vita di tutti noi è cambiata, quella di Francesco Molinari all’ennesima potenza. Dalla vittoriosa gara di Carnoustie, dove è diventato il primo azzurro della storia a conquistare il successo in un titolo del Grande Slam, Chicco ha cambiato addirittura continente nel quale vivere. 

La fase di adattamento, lo stop per la pandemia, il cambio di parte dello staff sono gli aspetti più evidenti inerenti il golf. 

Ora, a quattro anni di distanza, i risultati sono ancora a corrente alternata e così il popolo dei tifosi italiani scalpita e, spesso purtroppo, critica. Il gioco però sta tornando e con esso la conferma che la strada intrapresa è quella giusta. 

Come ti senti?

Per come la vedo ho fatto dei buoni progressi in questi mesi. A fine anno scorso ho chiesto una consulenza a Jamie Mulligan, un profilo simile a Denis Pugh. Jamie lavora da anni con giocatori dei Tour e ha acquisito molta esperienza. 

Dopo lo spostamento negli Stati Uniti ci sono state alcune difficoltà perché buona parte del mio staff era nel Regno Unito. Jamie e Denis collaborano insieme confrontandosi in continuazione. C’è ancora un po’ di lavoro da fare ma la strada è quella giusta. 

I risultati però non sempre sono stati incoraggianti, ti manca ancora continuità?

I risultati nel golf sono abbastanza effimeri. Non è semplice basare la propria percezione dei progressi in base a quello che dice lo score in una singola gara. Vedo segnali positivi. Sono convinto che Jamie e Denis mi stiano aiutando a migliorare rispetto allo scorso anno ma anche rispetto a dove mi trovo ora, un punto di passaggio verso la miglior forma. La prossima stagione, quando inizierà il periodo di qualifica per la Ryder Cup, mi piacerebbe essere al top della forma. 

Stai facendo cambiamenti importanti?

È un’evoluzione ma nessuna modifica troppo traumatica. Stiamo cercando più pulizia nel gesto eliminando movimenti inutili che, con il tempo, si erano inseriti nello swing piuttosto che aggiungere cose nuove. L’obiettivo è rendere il movimento più semplice.

Si gioca a St Andrews, che ne pensi?

È un campo unico per caratteristiche tecniche sul quale non ho fatto particolarmente bene in passato. Per atmosfera e per ciò che rappresenta è l’apoteosi del golf stesso. Non poteva esserci altra sede per il 150° anniversario. Sarebbe magico giocare bene lì, insieme ad Augusta è il posto più speciale del mondo.

Con quali obiettivi ci arrivi?

Non serve porsi obiettivi troppo specifici. 

Si vede come va la settimana scendendo in campo per vincere. Se invece dovrò lottare per superare il taglio lo farò in ogni caso con il massimo impegno, come sempre.

Sai cosa vuol dire giocare questa gara, visto che non sei un esordiente, ma anche vincerla. Avverti ancora emozione quando sei sul tee della 1?

Non ti nascondo che l’emozione c’è sempre. Per noi europei l’Open Championship ha un significato speciale. Da ragazzo e da dilettante, quando ho iniziato a giocare bene, è stato il primo major al quale mi sono avvicinato attraverso il British Amateur oltre che andando a vedere qualche edizione come spettatore. E da casa era la gara imperdibile da vedere alla televisione. 

L’atmosfera che si respira in questo torneo è unica e dura un’intera settimana. All’Open Championship si respira tutta la storia centenaria giocando, a rotazione, su incredibili percorsi dove hanno giocato le più grandi stelle del golf di sempre. L’atmosfera “british” piena di tradizione gli dà quel qualcosa in più.

A proposito di tradizione, com’è il tuo rapporto con il Regno Unito, dove hai vissuto per anni?

È rimasto speciale. I miei figli sono nati qui entrambi e ci ho vissuto una parte importante della mia vita con Valentina. Tornare a Londra evoca in me tanti ricordi e memorie del passato quindi resterà sempre il posto del cuore.

Hai notato differenza in termini di notorietà e affetto tra Regno Unito e Stati Uniti?

Mi sento ben voluto in entrambi i posti. In Inghilterra mi sentivo quasi adottato. 

C’era un rapporto speciale, ancora di più dopo aver vinto l’Open Championship e la Ryder Cup a Parigi. Questi due eventi per gli appassionati britannici sono le manifestazioni a cui tengono di più. 

Avendo giocato così bene mi ha dato notorietà. In America è diverso. Sono appassionati di golf, mi riconoscono ma non c’è quell’affetto tipico dell’Europa.

A proposito di Ryder, tuo fratello Edoardo è vice capitano. Che te ne pare?

Penso sia un’ottima scelta da parte di Henrik Stenson, per motivi diversi. Sia Thomas Bjorn che Dodo sono due grandi giocatori. È felicissimo e sono contentissimo per lui. È bello vederlo premiato così per tutto ciò che ha fatto e sta facendo. Sarebbe fantastico essere entrambi a Roma e sto lavorando molto per qualificarmi e poterci essere. Il periodo di qualifica inizia tra un po’ e sarebbe un buon momento per ritrovare la forma migliore.

Il suo sistema di analisi? Lo utilizzi, giusto?

È molto valido e super dettagliato. Non è il sistema in sé che ti fa migliorare. I numeri evidenziano le aree su cui lavorare e le priorità. Lo uso come guida rispetto al lavoro quotidiano e medio a lungo termine. Mi confronto spesso con lui, anche per la strategia che sia io che il mio caddie teniamo in forte considerazione. Io peraltro non sono un giocatore che va alla cieca e seguo il piano in modo fedele. È un buon punto di partenza da cui partire poi ci si adatta di giorno in giorno nel corso del torneo.

Si gioca l’Open Championship, il major con più edizioni, a St Andrews, il campo con la maggior storicità e tradizione. Non posso non chiederti cosa ne pensi di coloro che queste tradizioni stanno cercando di cambiarle: il LIV Golf. Hai ricevuto delle proposte?

No, proposte non ne ho mai avute e per il percorso che sto facendo non ho mai preso in considerazione il giocarci. In generale, non penso che la situazione che si è venuta a creare faccia bene al golf. Questa querelle non sta dando una buona immagine del nostro sport. Sicuramente il LIV fa bene al conto in banca di chi ci gioca. Senza essere troppo filosofici la Superlega del golf è un po’ la direzione in cui sta andando il mondo dove i soldi guidano tutto. Non vedo particolari innovazioni. Non penso che 54 buche shot gun siano qualcosa di innovativo o particolarmente divertente per giocatori o pubblico. Almeno non mi sembra. Tolto l’aspetto economico non vedo grandi vantaggi.

Tu che sei dentro le club house hai notato un cambiamento tra i giocatori che vi prendono parte e i detrattori?

Secondo me un po’ di spaccatura si è venuta a creare. Non c’è alcun giudizio da parte di chi non è andato verso quanti hanno scelto di prendervi parte. Siamo professionisti e capiamo le ragioni economiche. È la situazione generale a non essere semplice. Non si tratta di bianco o nero come cercano di farla vedere quelli schierati. 

È tutto molto più complicato e adesso come adesso non mi pare stia facendo un gran che bene al golf in generale. 

Ma di fatto i giocatori avrebbero potuto prendervi parte o no? Abbiamo letto di denunce e appelli a seguito delle “carte” annullate.

Per giocare fuori dai Tour nei quali si è iscritti serve un nullaosta ma non è mai stato un problema averlo. Ora, essendo presente un circuito in competizione sono cambiate un po’ le carte in tavola. Quelli che sono andati erano coscienti delle conseguenze. Sono scelte che facciamo tutti nel mondo lavorativo. Essere sotto i riflettori ne amplifica la portata.

E la decisione del DP World Tour che ha semplicemente multato i giocatori presenti a Londra alla gara di esordio?

Mi è sembrato solamente un modo per rimandare la decisione. Certo, il tour europeo non è in una situazione facile. Si trova tra l’incudine e il martello. Spero e penso che le alte sfere faranno presto scelte più a lungo termine. 

Dare una multa o sospendere i giocatore del LIV Tour nei tornei per i co-sanctioned non è sicuramente la linea che verrà tenuta in futuro.