Se un professionista diventa protagonista sull’European Tour, probabilmente lavora con Phil Kenyon. Volete una prova?

Bene. Il guru dei green ha tra i propri clienti ben sette dei 12 europei che hanno vinto la Ryder Cup a Parigi nel 2018.

Ovviamente tra loro c’è Francesco Molinari ma anche nientemeno che Justin Rose.

Lo abbiamo incontrato al Golf Castello Tolcinasco in occasione di un seminario organizzato dalla PGA Italiana.

Phil Kenyon ha iniziato la carriera di golfista come molti di noi: portato al circolo dai genitori all’età di 10 anni.

Si è innamorato delle palline con le fossette giocando a buon livello con i team giovanili inglesi prima di approdare all’università e diventare professionista.

In questa fase ha incontrato Harold Swash che, dapprima lo ha aiutato con il gioco, quindi è divenuto un vero e proprio mentore.

“Ho giocato cinque anni come professionista ma contestualmente insegnavo per arrotondare, visto che il mio livello di gioco non era eccelso. Con il passare degli anni mi sono reso conto che mi piaceva insegnare e quindi mi sono focalizzato sull’insegnamento – ci ha raccontato -. Harold ­Swash era già molto attivo e così ho iniziato a lavorare al suo fianco con buoni risultati, grazie all’esperienza da giocatore risultata un valore aggiunto per la mia carriera da insegnante”.

Il putt era la parte forte del gioco di Phil Kenyon che però inizialmente insegnava tutte le fasi del gioco. Poi la svolta e la specializzazione sui green con un metodo preciso.

“Penso sia importante lavorare con le persone cercando di capire chi si ha di fronte e dando un metodo personalizzato. Bisogna sviluppare tre capacità: come far partire la pallina sulla linea corretta, controllare la velocità e leggere il green. Così è possibile migliorare”.

Fa un uso massiccio della tecnologia, come mai?

“La tecnologia mi permette di capire dove intervenire per fornire una miglior impostazione. Bisogna essere in grado di utilizzarla e farlo con attenzione ma è fondamentale nel mio metodo d’insegnamento”.

Lei è abituato a insegnare a professionisti e ai migliori dilettanti. Cosa consiglia al giocatore con handicap a due cifre?

“Innanzitutto andare a lezione da un professionista per prendere consapevolezza capendo quali sono le basi e i punti di forza. Molti si fanno consigliare da amici o leggendo le riviste, ma nulla aiuta come le lezioni fatte da persone competenti. Si tratta di elaborare un piano di lavoro che permetta alla fine di migliorare.
Inoltre è necessario praticare. Molti non praticano a sufficienza con il putting e ancora di più di più hanno difficoltà con la lettura dei green. Esistono molti metodi per imparare a leggere il green, bisogna capire qual è quello giusto per ogni persona elaborando un ottimo rapporto con un maestro e coach che possa guidare nell’apprendimento”.

Quanto bisogna praticare?

“In linea di massima il 25/30 % del tempo di pratica dovrebbe essere dedicato al putt. Alcune persone possono impiegare più tempo, altre di meno”.

È più importante la forza o la direzione?

“Entrambe. Una influenza l’altra, quindi hanno pari importanza”.

Veniamo a Francesco Molinari. Come lo ha trovato alla prima lezione?

“Si vedeva che stava combattendo con il colpo e la direzione. Abbiamo cambiato tante cose per migliorare il putting: postura, concept, set up, abilità di prendere la linea…”

Ha lavorato anche sull’aspetto psicologico?

“Non direttamente. Sicuramente ne ha avuto beneficio mentale quando si è sentito più sicuro sul putt e quindi la mente ne ha beneficiato con un conseguente aumento di fiducia”.

È un lavoro che ha dato grandi frutti, per i quali tutti gli appassionati italiani ed europei le saranno grati per sempre. Ora l’opera è compiuta o si deve continuare?

“Ci sono numerose fasi nella pratica e nello sviluppo delle abilità. Francesco ha fatto un ottimo lavoro, l’importante è mantenere le abilità raggiunte, raffinando le tre abilità di cui parlavamo all’inizio giorno dopo giorno. È importante osservare cosa si può mantenere ma anche cosa si può migliorare ancora perché il progresso, per definizione stessa del termine, non ha fine”.