Trentotto anni, nato in Myanmar, cresciuto in Australia, abita a Singapore, con la fama di essere uno che parla molto franco. A Rabat era arrivato poche ore prima con un volo da Miami per presenziare l’International Series Morocco, in programma dal 3 al 6 novembre scorso al Royal Golf Dar Es Salam di Rabat.

Bastano questi dati per capire la straordinarietà del personaggio: stiamo parlando di Cho Minn Thant, CEO dell’Asian Tour, per la prima volta in Marocco, per la prima volta in Africa. Avevo appuntamento per la prima colazione alle 8 in punto: a quell’ora era già lì ad aspettarmi. La sala era piuttosto affollata e rumorosa: ha quindi chiesto di spostarci in un luogo più isolato in modo da parlare più riservatamente. La sera precedente, a cena con il suo staff e un paio di giornalisti, già aveva parlato molto liberamente della situazione mondiale del golf: ero curioso di vedere se sarebbe stato altrettanto schietto durante l’intervista.

Ebbene, forse è stato ancora più diretto: non ha mai girato intorno ai problemi, non ha mai evitato risposte sincere e oneste a domande politicamente difficili, ha illustrato un punto di vista diverso rispetto ai canoni tradizionali del golf cui siamo abituati e sempre ritenuti inamovibili, ma che tali non sono evidentemente più. Una vera sorpresa, insomma. 

Come mai Asian Tour approda in Marocco, anzi in Africa?

“La pandemia è stata la chiave di volta. Fino al 2019, il nostro ruolo era limitato da una concezione geografica: come altre realtà (Sunshine Tour in Sud Africa, Australasia in Australia, ecc.) Asian Tour si vedeva limitato a un ruolo minore di “fornitore dall’Oriente” di nuovi giocatori ai due tour più importanti, PGA ed European Tour”.

Ma la pandemia?

“È stato un blocco totale dell’attività, praticamente per tutti, con pesanti conseguenze anche sui bilanci. Questa situazione, peraltro non ancora risolta visto che abbiamo destinazioni chiuse come Cina, Macao e Hong Kong, ci ha dato il tempo per delle riflessioni. 

Ci siamo resi conto che, per l’impostazione che abbiamo nel tempo dato al tour, eravamo un “gigante addormentato”, avevamo potenzialità di cui non ci rendevamo conto. PGA ed European Tour, nel frattempo diventato DP World Tour, avevano ormai da tempo trasceso i confini geografici, con eventi in tutto il mondo.
Anche i nostri stessi giocatori hanno sottolineato la necessità di allargarci verso territori per noi inesplorati: abbiamo partecipanti da tutto il mondo, non solo asiatici, e questo ci ha fatto capire che dovevamo creare eventi non più definiti da confini geografici ma dalle scelte dei giocatori. La ripartenza del dopo-Covid ha facilitato il cambiamento”.

Ed è per quello che oggi siete a Rabat?

“Sì, è la prima volta per noi in Africa. E subito dopo ci trasferiremo al Madinaty Golf, a New Cairo, in Egitto. Qui a Rabat abbiamo trovato una mentalità aperta e collaborativa, che ha risposto alla nostra impostazione molto diversa dagli altri circuiti”.

E cioè?

“Noi abbiamo creato un clima molto amichevole tra i giocatori e tra giocatori e staff. Li aiutiamo nella logistica, cerchiamo hotel dedicati in modo da farli stare tutti assieme, ci occupiamo dei voli, e anche dei visti che, per giocatori di alcune nazioni, rappresentano un vero problema. C’è un clima molto rilassato e piacevole, direi che siamo una vera e propria comunità. È una concezione opposta a quella che vediamo in giro, dove ognuno deve arrangiarsi e quindi dove spesso i giocatori vivono da soli, vedendo per mesi solo il proprio coach o il caddie. 

Oppure devono rinunciare a certe gare perché logisticamente troppo complesse. È una macchina molto articolata che esige quindi un calendario che abbia una logica e una sequenzialità: l’evento in Egitto programmato subito dopo questa gara a Rabat, risponde a questa necessità. Questa organizzazione opera però con la massima flessibilità. Se qualcuno vuole fare le cose per conto suo, non poniamo ostacoli o veti. Se poi vogliono andare da altre parti e poi tornare, sono liberi di farlo. E forse è per questo senso di libertà che ormai praticamente tutti si affidano a noi per le loro gare”. 

Kiradech Aphibarnat, da noi incontrato al termine del suo primo giro a Rabat, ha sottolineato l’impareggiabile atmosfera familiare e la soddisfazione per l’allargamento dei confini dell’attività dell’Asian. 

Emblematica anche la risposta di Berry Henson, californiano di Santa Monica: “Sono venuto all’Asian dopo aver mancato la carta al PGA nel 2011. Volevo fermarmi un paio di anni per poi tornare negli USA. Da allora non mi sono più mosso e adesso vivo in Thailandia”. Di fronte a queste dichiarazioni, Cho Minn Thant sorride e dice semplicemente: “È ciò che volevamo ottenere”. 

E per il futuro? L’Europa è nei vostri piani?

“Nel prossimo futuro abbiamo la Q-School fatta di cinque eventi per il primo stage. Proprio per andare incontro alle tante richieste di giocatori USA, ne abbiamo previsto uno in Arizona, evitando loro di spendere troppi soldi nel caso non ce la facciano a qualificarsi; gli altri quattro saranno in Thailandia, come sempre. Per l’Europa vediamo possibilità di gare nei prossimi calendari solo in Spagna e Francia, proprio per un fattore logistico con il Marocco. Ma è un problema di sponsor, che in Europa, in questo momento, si trovano con molta difficoltà”.

A giugno avete avuto anche un evento in Inghilterra. Come mai?

“È stato un evento legato al rapporto con il LIV: la nostra manifestazione si è svolta la settimana precedente all’esordio del neo circuito saudita, proprio a sottolineare lo stretto rapporto. Un rapporto che ha rappresentato la spinta per uscire da un ruolo perdente (“underdog” è il termine usato, nda) e fare il salto di qualità con la creazione delle International Series: nel 2022 sono state una serie di sette gare dal montepremi decisamente elevato (tra 1,5 e 2 milioni di dollari ciascuno, nda), inserite nel calendario dell’Asian Tour: la gara in Marocco è stata una di queste. Nei prossimi anni gli eventi saranno dieci”.

Quindi non è solo l’atmosfera che attrae i giocatori: con montepremi così, l’interesse per l’Asian non poteva che aumentare. Allora questa crescita è merito del LIV?

“Siamo ormai molto legati, anzi è proprio grazie a loro, che ci hanno garantito lo svolgimento e i montepremi per i prossimi dieci anni delle International Series, che abbiamo fatto il salto di qualità. Il LIV ci garantisce poi sbocchi per i migliori dei nostri giocatori. Ad esempio, garantiamo la carta piena al Money Prize Winner delle International Series, il che, per quel giocatore, vuole dire un sacco di soldi. Inoltre, i trenta migliori dell’Asian Tour, assieme a giocatori di altri circuiti, saranno invitati a partecipare al Saudi International Tournament. Per i nostri ci sarà una ulteriore possibilità di qualificarsi per il LIV partecipando nel prossimo febbraio al PIF Saudi International, che è diventato l’evento bandiera dell’Asian, con un montepremi di 5 milioni di dollari”.

Parliamo della situazione LIV/PGA-DP World Tour. Vede la possibilità di trovare un punto di incontro dopo le dure azioni contro i giocatori che hanno accettato gli ingaggi del LIV?

“Noi siamo molto flessibili e disponibili a trovare un punto di convivenza. Siamo convinti che ci sia spazio per una sana concorrenza al fine di offrire ai giocatori delle buone scelte senza limiti geografici per nessuno, ma anche che le iniziative di LIV e Asian sono una nuova visione complessiva e alternativa del golf. Certamente abbiamo rotto uno Status Quo dove Asian Tour fungeva solo da procacciatore di nuovi giocatori per il PGA e il DP World Tour. Siamo coscienti che oggi lo siamo per il LIV ma, come ho detto, le condizioni sono piuttosto diverse”.

E dall’altra parte?

“Abbiamo trovato le porte chiuse”. 

Al termine dell’incontro, Cho Minn Thant si alza, mi stringe la mano e con un sorriso mi dice “Grazie del tempo che mi hai dedicato”. Grazie a te, Cho, per averci dato un nuovo e innovativo punto di vista del golf mondiale.