Chi ha avuto modo di vedere il Genesis Invitational giocato al Riviera Country Club dal 16 al 19 febbraio, avrà notato la sofferenza di Tiger Woods nel camminare. Soprattutto nella lunga salita che dal green della 18 porta alla club house per la firma dello score.

Mi sono chiesto perché sopportasse quel dolore e la risposta che mi sono dato è ‘passione’

Passione è una parola molto interessante: da una parte indica un sentimento di attrazione verso qualcuno o qualcosa così intenso che può turbare la capacità di controllo.
“È talmente appassionato che non rinuncia a giocare a golf nemmeno se fa freddo e piove!”, forse lo avranno detto anche di te. Sono le passioni a dare senso e sapore alla vita.

Dall’altra, passione indica una condizione di passività da parte del soggetto che si trova sottoposto a un’azione negativa esterna e ne patisce l’effetto doloroso sul piano sia fisico sia psichico senza che possa o voglia opporvisi.
È il senso che diamo all’espressione “Passione di Cristo” e deriva dal termine greco πάϑος (páthos, sofferenza, ciò che a una persona accade senza sua cooperazione). Ciò che accumuna i due significati è proprio il fatto che alla passione non c’è modo di opporsi.

Nell’uso comune però, il termine ‘passione’ come collegato al dolore è pressoché scomparso rimanendo circoscritto all’ambito religioso o usato come figura retorica per sottintendere le sofferenze subite da un individuo o da un popolo.

‘Passione’ oggi è prima di tutto un termine positivo, qualcosa alla quale voglio dedicarmi quanto più possibile perché mi dà piacere e appagamento (anche se talvolta mi fa soffrire perché le cose non vanno esattamente come vorrei, ma è una sofferenza breve e che comunque prima o poi svanisce). In effetti è la sofferenza in generale che non trova più spazio nella nostra narrazione, così come la debolezza: “Come stai?” “Bene!”, ben pochi si azzardano a dire ciò che realmente provano.

Il filosofo coreano Byung-chul Han, che dagli anni ’90 insegna in Germania, lo spiega chiaramente nel suo libro La società senza dolore nel quale parla di algofobia (da algos, dolore e fobia, paura) ovvero di una paura generalizzata del dolore che, a sua detta, affoga in una sorta di anestesia permanente. Si evita di ‘infastidire’ gli altri con la nostra esperienza dolorosa e ci si sforza di apparire sempre belli, resilienti, compiacenti e compiaciuti, sorridenti. Nulla di negativo deve turbare, sempre secondo Han, e persino le ‘seccature’ della vita vengono rinominate per apparire positive, fino a sforzarci di presentare i divieti che ci vengono imposti come opportunità, forme di auto-ottimizzazione. La stessa sofferenza, se non è possibile nasconderla viene spettacolarizzata, resa parte dello show come quella di molti calciatori dopo un fallo, talmente esagerata da suscitare più divertimento che compassione.

Ecco perché mi ha così colpito la sofferenza di Tiger, perché non era mediatica ed esibita, era una sofferenza vissuta interiormente ma non per questo celata.

“Solo la vita che vive, che è capace di provare dolore riesce a pensare”, sono ancora parole del filosofo sudcoreano, che prosegue: “Noi percepiamo la realtà soprattutto a partire dalla resistenza, che provoca dolore.” Questo concetto è chiarissimo a noi giocatori di golf: percepiamo il nostro corpo soprattutto in relazione alla resistenza che oppone al movimento di torsione nel backswing. Ed è proprio quella resistenza che consente di accumulare l’energia necessaria per uno swing efficace.

“Ogni intensità è dolorosa.” scrive Han “La passione unisce il dolore e la felicità. La profonda felicità contiene un attimo di sofferenza. L’infelicità e la felicità sono, secondo Nietzsche, due sorelle, e gemelle, che diventano grandi insieme o […] restano piccole insieme”.

Tiger ci ha permesso di cogliere la sua sofferenza e ci ha fatto capire che in quel momento stava pienamente vivendo la sua realtà, che è un campione ‘pienamente vivo’, il che non è poca cosa in un’epoca di figure che durano il tempo di un selfie.

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