Dicembre è il mese in cui molti golfisti italiani abbandonano i campi nebbiosi per cercare il sole di Dubai, del Marocco o delle Canarie. Non è solo una questione meteorologica: c’è qualcosa di più profondo nel desiderio di giocare ‘altrove’. Il viaggio golfistico non è semplicemente una vacanza con mazze al seguito, ma un’esperienza che tocca il cuore stesso di cosa significa giocare a golf.
Aristotele, nell’Etica Nicomachea, ci parla di eudaimonia – la ‘vita fiorente’, quella condizione in cui l’essere umano realizza pienamente le proprie capacità. Scrive: “La felicità è un’attività dell’anima secondo virtù perfetta.” Per il golfista, questa ‘virtù perfetta’ si manifesta nel gesto tecnico puro, nella concentrazione assoluta, nel piacere del colpo ben eseguito. Ma nel proprio circolo abituale, questa purezza è spesso offuscata. C’è lo sguardo del maestro che osserva, il confronto implicito con i compagni di sempre, l’ansia del punteggio che ‘conta’ per l’handicap. Il campo di casa diventa teatro sociale prima ancora che spazio di gioco.
Quando invece saliamo su un aereo con la sacca e atterriamo in un posto nuovo, qualcosa cambia. Sul links di Essaouira o sui fairway di Jumeirah, nessuno ci conosce. Non ci sono aspettative pregresse, non c’è storia da confermare o smentire. Siamo solo noi, il campo e la palla. È in questo anonimato liberatorio che spesso accade il miracolo: giochiamo meglio, o quantomeno giochiamo con più gioia.
L’antropologo francese Marc Augé, nel suo saggio del 1992 Non-lieux, distingue tra ‘luoghi’ e ‘non-luoghi’.
I luoghi sono carichi di storia, identità, relazioni: la casa, il quartiere, il circolo dove tutti ti conoscono. I non-luoghi sono spazi di transito, anonimi: aeroporti, autostrade, catene alberghiere. Augé li descrive con una certa malinconia, come simboli della modernità liquida. Ma forse per il golfista viaggiatore, il campo sconosciuto è qualcosa di diverso: non un non-luogo vuoto, ma uno spazio di reinvenzione. Un luogo dove puoi essere il golfista che vuoi diventare, non quello che sei sempre stato.
Pensiamo a Ben Hogan. Nel 1953, dopo il terribile incidente che aveva quasi distrutto la sua carriera, Hogan compì il suo viaggio per giocare per la prima e unica volta l’Open Championship a Carnoustie, in Scozia. Non conosceva quel tipo di golf, quei venti, quei green durissimi. Eppure vinse. In molti raccontano che Hogan arrivò settimane prima del torneo, studiò il campo come un monaco studierebbe un testo sacro, si adattò con umiltà a un golf completamente diverso dal suo.
Lontano da casa, libero dalle sue abitudini texane, Hogan fu costretto a ‘rifiorire’ come golfista. Il viaggio lo rese migliore.
Anche per i dilettanti, giocare lontano da casa è un atto filosoficamente significativo. Wittgenstein, nel Trattato logico-filosofico (proposizione 5.6), scrive: “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo.” Potremmo dire, parafrasando: i limiti del mio campo abituale sono i limiti del mio golf. Ogni campo ha il suo ‘linguaggio’: il modo in cui parla attraverso i suoi ostacoli, la vegetazione, il vento, la sabbia. Giocare su un campo dove il vento del deserto sconvolge ogni traiettoria, o su un parkland irlandese dove l’erba è così fitta che la palla sembra inghiottita, significa ampliare il proprio vocabolario golfistico. E con esso, ampliare la comprensione di sé come giocatore.
C’è poi un elemento quasi ‘pellegrinaggio’ nel viaggio golfistico. I grandi campi – St Andrews, Pebble Beach, Valderrama – sono mete cariche di significato. Non andiamo solo per giocare diciotto buche: andiamo per camminare dove hanno camminato i maestri, per sentire sotto i piedi la stessa erba che ha sostenuto i momenti decisivi della storia del golf. È una forma di connessione temporale, un modo per inserire il nostro piccolo gioco personale dentro una narrazione più grande.
John Rawls, nel suo A Theory of Justice, introduce il concetto di ‘velo di ignoranza’: un esperimento mentale nel quale dobbiamo progettare una società giusta senza sapere quale posizione occuperemo in essa. Nel golf del viaggio succede qualcosa di simile. Non sappiamo come andrà: non conosciamo il campo, non sappiamo se il nostro gioco reggerà, non possiamo fare affidamento sulle sicurezze di casa. Questo ‘velo di ignoranza golfistica’ ci obbliga a giocare in modo più autentico, meno calcolato socialmente. Dobbiamo fidarci del nostro istinto, della nostra preparazione profonda, non delle abitudini di superficie.
Qualche anno fa ho parlato con un dilettante che ogni inverno va a giocare in Portogallo. Mi ha raccontato che là gioca almeno tre-quattro colpi meglio del suo handicap italiano. “È perché sono più rilassato,” mi ha detto. “Nessuno mi guarda. Nessuno sa che cosa ‘dovrei’ fare. Sono libero di sbagliare e libero di provare colpi che a casa non oserei mai.”
Quella libertà è la chiave. Aristotele direbbe che in Portogallo quell’uomo si avvicina di più alla sua eudaimonia golfistica: gioca per il piacere intrinseco del gesto, non per confermare o smentire un’identità sociale.
Naturalmente, c’è anche il rischio opposto: quello di trasformare il viaggio golfistico in consumo turistico superficiale. Augé ci metterebbe in guardia contro questo: il pericolo di collezionare campi come fossero francobolli, di giocare senza davvero ‘abitare’ il luogo. Se partiamo solo per dire “ho giocato a Valderrama”, senza immergerci nell’esperienza, nel paesaggio, nella cultura del posto, allora sì che il campo diventa un non-luogo vuoto. Il filosofo austriaco Martin Buber distingueva tra relazione ‘Io-Tu’ e ‘Io-Esso’: la prima è un incontro autentico, la seconda è strumentalizzazione. Il campo lontano merita una relazione Io-Tu: un dialogo, un ascolto, un rispetto.
Per chi sta progettando il proprio viaggio golfistico natalizio, il caddie filosofo potrebbe suggerire tre domande prima della partenza:
Primo: cosa cerco davvero? Se la risposta è “scappare dalla routine”, va bene, ma è solo metà della verità. La parte più importante è: cosa voglio scoprire di me come golfista?
Secondo: sono pronto a giocare senza aspettative? Il campo nuovo non deve essere un esame da superare. Non dobbiamo tornare con uno score da vantare. Dobbiamo tornare con un’esperienza vissuta.
Terzo: come posso ‘abitare’ questo luogo, non solo consumarlo? Parlare con i caddie locali, osservare come giocano i membri del circolo, assaggiare il cibo locale, camminare lentamente. Il golf è lento per natura: il viaggio golfistico dovrebbe essere altrettanto lento e meditato.
C’è una storia che si racconta su Old Tom Morris, il leggendario custode di St Andrews. Un giorno un visitatore americano gli chiese: “Quanto tempo ci vuole per imparare a giocare su questo campo?” Old Tom rispose: “Una vita intera, se sei fortunato.” Non stava scherzando. Ogni campo è un mondo. E ogni volta che viaggiamo per giocare, stiamo in realtà compiendo un viaggio dentro noi stessi.
Quindi, mentre preparate la sacca per Dubai o per il Marocco, ricordate: non state solo cercando il sole. State cercando quella versione di voi stessi che gioca per pura gioia, libera dal peso delle aspettative. Quella versione esiste. Spesso abita lontano da casa, in un campo che non conoscete, sotto un cielo diverso.
Buon viaggio. E buon golf.