Il Masters ha la capacità di cambiare in positivo, ma spesso anche in negativo, vita e carriera di molti professionisti che hanno avuto l’onore di giocarlo.

Prendete il nostro Francesco Molinari: insieme a lui abbiamo sognato la prima Giacca Verde italiana quando, nell’aprile del 2019, Chicco è partito al via delle ultime 18 buche in testa al torneo.

Un sogno improvvisamente interrotto in modo traumatico prima con il tee shot della 12, finito in acqua, e definitivamente tramontato alla 15, con un’altra acqua sul terzo colpo al green.

Lo stesso Molinari, dopo aver sfiorato un’impresa che sarebbe passata alla storia, ha più volte dichiarato che ci sono voluti mesi, e non pochi, per riprendersi definitivamente da quello shock. Chicco in una recente intervista ha addirittura confessato di aver pensato per un momento se fosse stato il caso o meno di continuare a giocare.

Ma come Molinari, molti sono coloro che, a causa di una clamorosa debacle al Masters, hanno avuto non pochi problemi a lasciarsi alle spalle il suo pesante ricordo. La storia del Masters ne è piena, e non solo in tempi recenti.

Una delle più clamorose fu quella del 1996. Greg Norman, lo Squalo Bianco, partì al via delle ultime 18 buche con ben 6 colpi di vantaggio su Nick Faldo. Il suo 78 finale con due acque alla 12 e alla 16 regalarono al britannico la sua terza Giacca Verde, la più insperata, dopo quelle del 1989 e 1990.

Fu l’ennesima delusione al Masters per l’australiano, che non riuscì mai a vincere ad Augusta seppur andandoci vicinissimo in un numero incredibile di occasioni: in 23 partecipazioni totali conta 3 secondi posti, altrettanti terzi, un 4°, un 5° e un 6°. Vinse 88 tornei in carriera e due major (Open Championship 1986 e 1993), fu numero 1 del World Ranking per 331 settimane tra gli Anni 80 e 90 ma l’Augusta National restò per lui un tabù assoluto.

E come dimenticare ad esempio Chris DiMarco, che nel 2005 lottò contro Tiger Woods per la Giacca Verde, prima di arrendersi al Fenomeno, capace di magie come il celebre chip alla 16 per il birdie, entrato nella storia del golf come uno dei colpi più incredibili mai visti su un campo da golf?

DiMarco, che sino ad allora aveva avuto una più che dignitosa carriera (8 vittorie di cui 3 sul PGA Tour), perse poi quel Masters alla prima buca di playoff e da quella delusione non si riprese mai più. Ebbe solo un ultimo acuto, l’anno successivo, con il secondo posto nell’Open Championship, prima di sparire nell’assoluto anonimato.

Nel 2012 stessa sorte toccò a Peter Hanson. Leader dopo 54 buche ad Augusta, lo svedese fece addirittura shank alla buca 12, chiudendo le ultime 18 buche in 73 e perdendo il playoff tra Bubba Watson e Louis Oosthuizen per un solo colpo.

Vinse ancora due tornei quello stesso anno (KLM Open e BMW Masters) sull’European Tour (per un totale di 6 in otto anni sul principale circuito europeo), giocò la Ryder Cup a Medinah a settembre ma quella profonda ferita al Masters non si rimarginò mai più. Tornò ad Augusta soltanto in altre due occasioni, nel 2013 e nel 2014, chiudendo 50° nella prima e non passando nemmeno il taglio nella seconda.

Fu questa la sua penultima apparizione in carriera in un major, seguita solo dallo U.S. Open 2016 in cui fu addirittura squalificato. Anche a causa di un’ernia al disco abbandonò la carriera nel 2017.

Gli effetti collaterali indesiderati del Masters toccano anche chi la Giacca Verde l’ha già indossata prima, come nel caso di Jordan Spieth. Il talento texano, nel 2016, gettò al vento la sua seconda vittoria consecutiva ad Augusta dopo quella di 12 mesii prima, regalando il Masters all’outsider Danny Willett. Spieth bruciò cinque colpi di vantaggio sulle seconde e ultime nove buche del torneo, con un devastante quadruplo bogey alla 12 frutto di ben due palle in acqua.

Da quel momento Spieth entrò in una spirale di negatività in cui ne uscì solo per nove buche a Birkdale, nel luglio del 2017, quando vinse l’Open Championship grazie a un parziale di cinque sotto tra la 14 e la 17 dell’ultimo giro per soffiare la Claret Jug a Matt Kuchar.

Un incubo da cui è uscito definitivamente quest’anno, in cui ha finalmente ritrovato il suo gioco, la convinzione dei tempi migliori e la vittoria al Valero Texas Open, la settimana prima del Masters, tornando al successo dopo quasi 4 anni di sofferenza in cui era lentamente scivolato addirittura al bordo dei primi 100 del World Ranking.

Difficile ora dire cosa succederà al buon Xander Schauffele dopo quanto visto domenica scorsa al Masters. Il 27enne di San Diego è arrivato vicinissimo all’impresa di riprendere Hideki Matsuyama per i capelli dopo la buca 15, in cui le distanze tra i due si erano ridotte a soli 2 colpi.

L’acqua però con il tee shot della 16 gli è costata il torneo e le ultime possibilità di lottare per la Giacca Verde. Vero è che Schauffele stava questa volta rimontando da dietro e non è invece caduto rovinosamente a due passi dal traguardo come molti suoi colleghi hanno fatto in passato ad Augusta, ma la delusione e i rimpianti per questo Masters restano parecchi.

“Sono andato su quel tee convinto, mi sentivo bene – ha detto Schauffele ad Amanda Balionis della CBS al termine del Masters -. Matsuyama sorprendentemente aveva giocato per il green alla 15, andando lungo in acqua e poi chiudendo in bogey, una scelta strategica che mi ha davvero sorpreso.

Lì ho capito che potevo avere ancora qualche chance e forse sono stato iperaggressivo sul colpo dal tee alla 16. Erano 184 yard (168 metri): Austin (Kaiser), il mio caddie, e io eravamo totalmente d’accordo sulla scelta del bastone: ho giocato un ferro 8 e l’ho colpito perfetto, non l’ho minimamente tagliato.

Si è trattato di una scelta errata che abbiamo preso insieme, non possiamo che recriminare su questo. Il vento ha fatto la sua parte nel momento sbagliato e il triplo bogey mi ha tagliato le gambe. Ho però combattuto sino alla fine, seppur avessi iniziato male l’ultimo giro.

Matsuyama è stato un robot per 13 buche, non ha fatto il minimo errore. Gli ho messo un po’ di pressione, peccato non averlo fatto fino alla fine, magari le cose sarebbero girate diversamente. Ci riproverò…”.

Schauffele ha dalla sua l’età, 27 anni, e un record negli Slam che fa davvero impressione: è il giocatore che ha la percentuale più alta di Top 10 per major disputati, oltre il 57%. Professionista dal 2015, ha in bacheca 5 vittorie, 4 sul PGA Tour e un WGC, l’HSBC Champions 2018.

È stato rookie of the Year del PGA Tour nel 2017 ma quello che davvero sorprende è appunto il suo livello di performance nei tornei dello Slam. Ne ha giocati sino ad ora 15 in 5 anni e vanta 14 tagli passati, due secondi posti, due terzi e ben otto top 10.

Insomma, tutto sembra fuorché un giocatore in crisi di risultati e di identità. La prova del nove tra poco più di un mese sull’Ocean Course di Kiawah Island, in South Carolina, sede del 103° PGA Championship dal 20 al 23 maggio, torneo che, manco a dirlo, ha chiuso nei primi dieci lo scorso anno ad Harding Park.

Ma quando rimetterà piede in Magnolia Lane ad aprile del 2022 non ripensare a quel ferro 8 sarà tremendamente difficile, pure per uno tosto come lui.