Prendete il mappamondo e puntate il dito sulla Georgia, lo stato delle piantagioni di cotone, ultimo ad aver eliminato la schiavitù, al confine con la Carolina del Sud, a circa due ore di strada da Tara, la famosa città del film ‘Via col Vento’. 

Qui nacque nel 1933 l’Augusta National Golf Club, ancora oggi saldamente arroccato sui suoi principi costitutivi.

Tanto per capire: il circolo è il più esclusivo del mondo e per diventare soci serve un invito, le richieste non sono gradite.

Un esempio è Bill Gates che dovette faticare fino all’inverosimile per riuscire nell’impresa.

Fatta questa premessa, è chiaro come Augusta sia sì il campo più esclusivo ma anche il più conservatore e l’origine dell’attaccamento alla tradizione (o avversità ai cambiamenti) è un retaggio del suo fondatore e braccio operativo, Clifford Roberts.

A lui è attribuita la frase: “Finché sarò vivo, i golfisti saranno bianchi e i caddie saranno neri”.

Una storia, quella di Augusta e del Masters, fondata sulla discriminazione che, fino a poco a tempo fa, regnava nelle terre sudiste.

Nella parola Masters echeggia subito la figura dei caddie, che dal 1933 erano vestiti tutti allo stesso modo: cappello verde e divisa goffa bianchissima, così come volevano i fondatori.

La particolarità dell’abbigliamento serviva a far risaltare la purezza dell’etnia dei giocatori, in contrasto con chi la divisa doveva indossarla, giovani di colore dalle umili origini.

Man mano, nel corso degli anni, la storia di questi uomini si sbiadì nella nebbia della memoria.

Ogni anno, con britannica puntualità, i ragazzi di colore con la tuta bianca aspettavano trepidanti la settimana del Masters, il periodo più redditizio dell’anno, in cui potevano guadagnare più di quanto non facessero nelle altre 51 settimane.

Racconti dimenticati come quelli di Jariah Beard, celebre caddie che nel 1979 si rese protagonista di una storica vittoria con Fuzzy Zoeller, il rookie di quell’anno.

Grazie alla sua profonda conoscenza del campo e dei green, permise a Zoeller di imbucare un putt di cinque metri al playoff contro Tom Watson ed Ed Sneed.

Il neo vincitore donò a Beard più del 10 percento del montepremi che ammontava a 50.000 dollari, chiedendogli di seguirlo stabilmente sul Tour ma il caddie rifiutò l’offerta pensando comunque che avrebbe avuto un lavoro assicurato per tutta la vita durante la settimana di aprile.

Non andò così.

All’inizio degli anni ’80, alcuni top player capitanati da Tom Watson avevano scritto ad Harold Hardin, allora presidente dell’Augusta National, chiedendo di poter usare i propri caddie.

E dopo che un temporale aveva sospeso il gioco durante il primo giro nel 1982, un malinteso sugli orari fece sì che diversi caddie si presentassero in ritardo il giorno successivo.

L’occasione perfetta per fare pressione sul circolo affinché si apportasse il cambiamento richiesto.

La decisione venne ufficializzata con l’edizione del 1983 e pose fine a una tradizione lunga 46 anni. Insieme alla maggior parte degli oltre 90 caddie del golf club, Beard perse il lavoro.

L’unico che volle sempre il suo fidato collaboratore con la tuta bianca fu Ben Crenshaw, che con Carl Jackson formò per 39 anni una delle ‘coppie’ più affiatate viste lungo i fairway di Augusta. Amici dentro e fuori dal campo, vinsero due edizioni, nel 1984 e nel 1995.

L’edizione del 1983 ha cambiato per sempre l’aspetto del Masters. E se per molti questa scelta è vista come l’abbattimento della barriera del pregiudizio razziale, per gli uomini di colore della Georgia sancì l’interruzione dell’affermazione e dell’appartenenza a uno sport che, tradizionalmente, lasciava poco spazio alla razza nera.

Far parte dell’entourage dell’Augusta National era per queste persone un orgoglio, una medaglia da portare al petto con fierezza.   

Essere una persona di colore in America non era e non è facile, i fatti purtroppo lo dimostrano quotidianamente.

Figurarsi il 10 aprile del 1975 quando un giocatore di nome Lee Elder si presentò nel tempio del golf conservatore per eccellenza.

Sul tee della 1 Elder aveva gli occhi di tutti puntati su di sé. Sguardi abituati a vedere uomini dalla pelle scura ma solo con indosso una tuta bianca, non certo con il driver in mano.

Per un afroamericano non deve essere stato facile giocare a golf nel profondo Sud in un periodo di forte conflitto razziale, di segregazione e Black Power.

Il giocatore di Dallas era riuscito a farsi invitare dopo aver vinto il Monsanto Open l’anno precedente, ma il suo torneo fu costellato di ostacoli e pressioni.

Ricevette minacce di morte al punto da dover affittare due diverse abitazioni in modo da non fare sapere a nessuno dove dormisse.

La storia però era già stata segnata.

Nel tempio sacro del golf, un afroamericano riuscì in un’impresa che fino a pochi anni prima sembrava inimmaginabile. Ma non si fermò qui.

Fu il primo giocatore di colore a qualificarsi per la Ryder Cup nel 1979 e il primo a ricevere il Bob Jones Award, la più alta onorificenza assegnata dalla USGA.

Elder fece da apripista alla nuova generazione di giocatori e sportivi di colore, abbattendo i muri di pregiudizi e discriminazioni. Perché Tiger Woods avesse successo, doveva esserci stato Lee Elder.

Elder, Augusta, Tiger.

Tre nomi collegati da loro in modo indissolubile. Lee Elder nacque nel 1934, l’anno della prima edizione del Masters e partecipò all’esclusivo torneo in Georgia nel 1975, anno di nascita di Woods, che, come lui, avrebbe cambiato per sempre la storia del golf.