Ore 6:50, suona la sveglia. Non si tratta di andare a giocare con prima partenza in una gara di cartello, ma l’eccitazione è la medesima.

Appuntamento telefonico, intercontinentale, con Francesco Molinari che si trova a San Francisco, dove si è temporaneamente trasferito. I suoi bambini si sono appena addormentati, il mio si sveglierà tra poco. Certo che avresti potuto spostarti sulla costa Est degli Stati Uniti così avrei potuto dormire un po’ di più!

Guarda, ci abbiamo pensato! Qualche anno fa avevamo ipotizzato la Florida, poi per una serie di motivi l’avevamo esclusa velocemente. Avevamo anche guardato altre zone della costa Est: a me piacciono Washington e New York, dove però il clima per buona parte dell’anno non è positivo per un golfista. La California è sempre andata a genio a entrambi, nonostante sia più lontana dall’Europa. Nel 2017 eravamo stati vicini dal trasferirci a Los Angeles. Avevamo visto scuole e case, ma poi non ce la siamo sentita.

Quindi ora San Francisco, la città più europea degli States.

San Francisco ancora per qualche giorno, ma la destinazione definitiva sarà Los Angeles.

Cioè, fammi capire. Hai preso moglie e figli, imballato tutto e partito senza una destinazione chiara?

Uno spostamento di questo tipo è molto differente da un trasloco in un’altra via o in una città dello stesso Paese. Questo periodo particolare poi non ha aiutato e comprare una casa al buio non è semplice. Non avendo avuto possibilità di venire di persona abbiamo sottoscritto un affitto a breve termine a San Francisco; poi, girando, abbiamo trovato una sistemazione più funzionale a Los Angeles.

Quando e come siete arrivati alla scelta di trasferirvi?

Era un argomento frequente negli ultimi anni. Io passavo sempre più tempo in America rispetto all’Europa. Quando è esplosa la pandemia, ad esempio, io ero in Florida, mentre Valentina a Londra con bambini. Le nostre famiglie invece in Italia. Questa cosa ci ha fatto riflettere. Il periodo di lockdown ci ha portato a fare una profonda analisi delle nostre vite, ma come per noi la stessa cosa immagino sia successa un po’ a tutti, e abbiamo deciso di non procrastinare ulteriormente. Quest’anno peraltro i tour ci hanno dato flessibilità, con i minimi dei tornei saltati, togliendoci la pressione dal dover giocare continuamente senza fermarci. Con due bimbi piccoli serve tempo per organizzare tutto, specie senza poter esplorare prima di partire.

Non è che c’entra la gestione del Covid da parte del governo britannico, che non ti aveva entusiasmato? O magari il meteo e la cucina inglesi?

No, no! La scelta è legata al mio lavoro. Peraltro anche qui non è che il Covid sia stato gestito benissimo. A breve riapriranno le scuole ma le lezioni saranno online, con la speranza che funzionino meglio che in Inghilterra o in Italia.

Cosa hai fatto in questo periodo, a parte disfare e fare scatoloni?

Non li ho ancora disfatti! Le nostre cose sono tutte imballate su una nave che ci mette circa tre mesi ad arrivare. Sino a quando sono stato a Londra mi sono allenato con costanza, sia dal punto di vista fisico che tecnico. Inizialmente con più difficoltà per il lockdown ma poi c’è stata la parziale riapertura. Quando ci siamo spostati negli States nel primo mese ho fatto un lavoro fisico a casa, poi mi sono fermato. Gli ultimi 15 giorni di agosto ho ripreso sia l’allenamento fisico che il golf.

Lo stop così prolungato è stato preventivato o è maturato strada facendo?

Ci siamo spostati il 19 luglio e pensavo che, visto che il PGA Championship si sarebbe giocato qui a San Francisco, avrei potuto prendervi parte. Avvicinandomi alla data del torneo mi sono reso conto che sarebbe stata una forzatura. Non sarei stato in grado di giocare ad alti livelli. La stessa cosa è successa con lo U.S. Open. Lo spostamento a Los Angeles ha decretato lo slittamento di qualche settimana e così ho deciso di aspettare un po’ e poi dedicarmi al lavoro per bene.

Rimanere così a lungo lontano dai tornei che conseguenze può provocare nel gioco? E con gli sponsor?

È una situazione mai vissuta in passato perché uno stop così prolungato può avvenire solo per un infortunio e, fortunatamente, non mi è mai capitato. Ho praticato e non ho sentito ruggini particolari. Invece la lontananza dai tornei è un punto interrogativo. Non so come sarà la reazione. Siccome l’inizio di stagione era stato abbastanza negativo, la pausa non sarà stata dannosa. Se avessi fatto un inizio di stagione strepitoso avrei provato a rientrare più velocemente e sarei più preoccupato per l’aspettativa più alta data dalla buona forma prima della pausa. Non avevo molto da perdere, anzi mentalmente penso che questo stop mi abbia fatto bene. Con gli sponsor i contratti sono congelati. Noi professionisti abbiamo un minimo di gare, normalmente 18/20, che non raggiungerò. Rinuncerò ai soldi per quest’anno ma con il Covid sarebbe comunque stato un problema. Per i rinnovi a fine stagione vedremo. Ci saranno sponsor più e meno contenti: valuteremo, perché è un periodo non semplice anche per le aziende.

Parlavi di serenità. Quindi, come noi dilettanti, giocate meglio con la mente sgombra?

Non è proprio così. Noi giocatori di torneo sviluppiamo la capacità di isolarci da quello che succede fuori dal campo. Ho disputato ottimi tornei con situazioni esterne non facili, mentre mi è capitato di giocare male quando tutto era stabile e sereno. In questi mesi smettere i panni del pro, che ho tenuto per 15 anni mettendo sempre la famiglia in secondo piano, e vestire quelli del papà e del marito, aiutando Valentina e bambini in questo momento difficile, mi ha dato serenità. È complicato, sia per me che per loro che, dopo dodici anni a Londra, devono lasciare amici e abitudini.

La gente non ha smesso di tifare per te, solo è rimasta delusa di non poterlo fare. Come hai vissuto i commenti?

Non ho visto più di tanto se non sui social. Immagino che gli appassionati avrebbero voluto vedermi in campo ma confido che capiscano la situazione particolare. È solo un periodo di riflessione. Quando saremo sistemati sarò il più felice di tornare alle gare. Mi è mancato giocare tanti tornei e guardare in TV i miei colleghi nei major non è stato facile.

Il fatto di perdere posizioni nel World Ranking è irrilevante ora che hai vinto un major?

È sempre importante però sono in una fase nella quale, fortunatamente, posso “permettermi” di prendere una pausa. Se avessi avuto 25 anni probabilmente l’avrei approcciata in maniera diversa. I ranking sono temporanei e non mi preoccupa più di tanto andare indietro perché so che basta giocare bene per risalire. È solo matematica. Non sono irrimediabili. Capisco quelli che dicono che non sarà facile tornare dopo una pausa lunga o raggiungere nuovamente livelli altissimi. In nessuna professione è semplice arrivare ai vertici e rimanervi. Quello di cui sono certo però è che l’ho già fatto e penso di poterlo fare ancora. Non credo di tornare a fare sfracelli da subito, ma quando sarò con la testa concentrata al 100% tornerò ai livelli che penso di meritarmi.

Ci sono stati cambiamenti nel tuo staff. Quali e come mai?

Non dei cambiamenti profondi. James Ridyard, che mi aiutava solo sul gioco corto, ora affianca Denis Pugh in quello lungo. Hanno due aree di competenza diverse: Denis è il coach principale mentre James ha un approccio più empirico, usa più strumenti tecnologici con conoscenza approfondita, come analisi 3D e Trackman.

L’anno scorso, dopo il Masters, verso giugno, abbiamo perso sicurezza in quello che stavamo facendo. Avevo qualche dubbio e Denis faceva fatica. Così, avendo apprezzato James per il gioco corto, abbiamo pensato con Denis di chiedere la sua collaborazione in altri ambiti per andare più nel profondo in questioni tecniche. Lo staff è lo stesso ma con dinamiche differenti.

Cosa pensi del sistema di analisi creato tuo fratello Dodo?

Dodo ha fatto un grande e ottimo lavoro con le statistiche. Senza ombra di dubbio è molti passi avanti rispetto alle altre aziende che offrono questo servizio. Sicuramente userò i suoi strumenti quando andrò in campo, le analisi sono indispensabili al giorno d’oggi.

Quali sono i progetti del futuro? Sarai americano al 100%, anche come Tour?

Non ho deciso si abbandonare l’European Tour. La richiesta è di giocare quattro gare durante l’anno in Europa. Spero e penso di riuscire a continuare come adesso. In estate probabilmente tornerò in Italia o nel Regno Unito per le vacanze dei bambini. In quell’occasione parteciperò alle gare europee.

L’European Tour sta vivendo un periodo difficile mentre il PGA domina. Che ne pensi del futuro del golf mondiale?

È una situazione complicata che, in generale, non fa bene al golf come sport. Sono due entità che competono tra di loro, seppur collaborando per i calendari visto l’interesse allo stesso “gruppo” di giocatori. Le circostanze hanno esasperato le differenze tra i due circuiti. L’European Tour è riuscito a programmare dei tornei su campi storici e famosi di grande qualità, fornendo comunque un buon prodotto televisivo. Il PGA Tour però ha una solidità finanziaria decisamente superiore.

Il 2021 sarà anno di Ryder, programmerai la stagione anche per quell’appuntamento o, come ci dicesti nel 2017, la presenza sarà una conseguenza di tutto il resto?

Rimango di quell’opinione. Non penso si possa programmare perché i punti in America contano come quelli in Europa. Bisogna solo giocare e bene. In questa situazione ci sono altre cose a cui dare la precedenza. Innanzitutto tornare alle gare ed entrare in forma. Poi c’è tutta la stagione per qualificarsi. Bisogna fare risultato nei tornei chiave con più punti. Chi gioca meglio si qualifica, niente scuse.

Mickelson ha elogiato Tiger su Twitter. Abbiamo visto il tuo “like” di apprezzamento.

Tiger ha cambiato il golf per sempre, rivoluzionandolo sia come sport che come tecnicità e visibilità. Credo che Phil si riferisse a questo. Noi giocatori di torneo dovremmo fare una decina di statue a Woods perché tutti indistintamente abbiamo beneficiato dell’effetto delle sue vittorie. In questi anni me ne sono reso conto ancora di più negli States: quando gioca lui c’è un’atmosfera differente e un’attenzione maggiore rispetto a quando è assente. Questo nonostante i talenti fantastici che ci sono. Nessuno ha la sua forza mediatica.

A proposito di talenti, continua a cambiare il numero uno del mondo. Fatto mai successo con tale frequenza. Come mai?

Ci sono una molteplicità di ragioni che hanno portato a un livellamento verso l’alto negli ultimi anni. Attrezzatura, preparazione fisica, statistiche, aspetti mentali. Molti più giocatori hanno meno punti deboli e questo porta a un avvicendamento maggiore.

C’è un gruppetto di cinque o sei che, obbiettivamente, se sono al top della forma, concetto difficile da definire e mantenere per periodi prolungati, possono vincere. Rory McIlroy, il primo che mi viene in mente, quando è in forma e concentrato al 100% è inarrivabile, sicuramente il più dominante. Ma anche DJ, Koepka, Thomas e Rahm che, anche se più giovane, è su quella strada. Loro hanno qualcosa in più.

Vuoi dire qualcosa ai tuoi tifosi?

Come ho scritto su Twitter li ringrazio per la pazienza di aspettare qualche mese in più del previsto. Cercherò di fare del mio meglio quando tornerò, perché penso che ci prenderemo ancora delle belle soddisfazioni.