Via i colletti obbligatori. Spazio all’abbigliamento che permetta di esprimere la propria personalità. E poi, tifo da stadio ed entusiasmo alle stelle che però diventa religioso silenzio al momento del colpo. Questo è la Ryder Cup e, forse, da qui potremmo ripartire per allargare il numero dei golfisti.

Un tema tanto dibattuto e auspicato ma mai guardato da una diversa prospettiva. Ryder Cup è anche un plotone di volontari e addetti ai lavori che non necessariamente giocano a golf. E sapete cosa ci hanno detto taxisti, infermieri e personale della sicurezza che per la prima volta hanno varcato i cancelli di un golf? “È uno sport per persone ricche e anche un po’ ingessate”. Ebbene, sappiamo che modificare un’opinione comune radicata da decenni non è semplice e neppure auspichiamo un golf dove tutto sia concesso nella totale anarchia.

Potremmo pperò rendere in considerazione è la lezione che ci arriva dalle persone che vivono il golf come passione primaria. Parlo dei golfisti che varcano l’Oceano per seguire il team americano o anche quelli che sono saliti su un aereo raggiungendo Roma. Sono golfisti come noi italiani, che rispettano l’etichetta e il gioco, ma che per essere felici chiedono solo un prato, delle buche e una sacca. Non è un problema se il fairway non è perfetto e non scatenano la rivoluzione per i green carotati. Vivono semplicemente il gioco come passione in tutte le sue forme e non hanno bisogno di modificare lo score per aggiungere un piattino in bacheca. A loro basta bere una birra in compagnia davanti alla quale non raccontano tutte le 18 buche bensì scherzano sui colpi peggiori.

La Ryder ci ha insegnato che si gioca per amore, si tifa per passione, ci si abbraccia con sconosciuti magari vestiti in modo strano. E poi, si applaude l’avversario, sconfitto o vincitore che sia. Onore, fairplay, magari una birra e poi… pronti per il prossimo colpo.