La vittoria di Manassero nel tour maggiore in Sudafrica ha chiuso un cerchio, un viaggio lungo oltre dieci anni fatto di tanto lavoro tecnico e personale.

Matteo Manassero è tornato alla vittoria nel tour europeo. In Sudafrica ha conquisto il suo quinto trofeo a distanza di quasi undici anni dall’ultimo successo, al termine di un percorso fatto di sofferenza, crescita e tanto, tantissimo lavoro.

Chi ha qualche lustro di esperienza golfistica ricorda la storia di Manny: si è avvicinato al golf da bambino guardandolo in TV e tirando i primi colpi con i bastoni di plastica regalati dai genitori.

Il talento è subito emerso e, annaffiato da tanta passione, ha permesso al baby veronese di bruciare le tappe e diventare proprio come quelli che aveva tanto osservato in televisione. 

Non solo. Lo ha fatto talmente precocemente da infrangere molti record e conquistare ben quattro vittorie in altrettanti anni da quello d’esordio nel 2010.

Il 26 maggio 2013 il titolo più importante a Wentworth, il BMW PGA Championship, apice della carriera ma inizio di una lunga e profonda crisi che lo ha portato dal 25° posto al mondo al 1805°. 

Come mai è successo tutto questo?

“Non sono riuscito a capire come mai sia passato dal top ad andare così in difficoltà. Il golf è super difficile ma credo ci siano state alcune cose non affrontate nella maniera giusta e più fattori che hanno contribuito sinergicamente al tracollo. Inoltre, l’aspettativa mi ha portato a un carico psicologico che mi ha limitato e, probabilmente, ho anche tardato nel fare delle scelte”.

Di fatto non c’è stato un evento scatenante o un singolo fattore ma una serie di concause, tra le quali probabilmente la poca esperienza, che hanno causato una profonda crisi. Eppure, il successo era arrivato rapidamente perché a Matteo veniva tutto facile. Vittoria in Spagna nella stagione di esordio, conferma l’anno successivo in Malesia, poi Singapore sino a Wentworth, con l’invito ad assistere alla Ryder Cup come ospite d’onore. Un predestinato che però non si è mai montato la testa.

“Tutto sembrava facile ma non mi sono mai sentito il più forte di tutti. C’è stato un momento nel quale anzi, nonostante i risultati, mi sembrava mi mancasse ancora qualcosa. Ho sempre avuto la consapevolezza di quello che dovevo migliorare anche se mi riusciva tutto molto semplice”.

Sono passati tantissimi anni, nei quali non sono mancate le critiche e la sfiducia. In Italia siamo ‘risultatisti’, il calcio insegna. Il caso Sinner ci racconta quanto siamo capaci di esaltarci per le vittorie di un connazionale quanto, non ancora con lui, spietati nel criticarlo aspramente in caso di insuccesso. Matteo è stato così anche per te?

“Dove si pratica il golf da maggior tempo c’è una cultura sportiva maggiore. Quando ci sono grandi successi ci si affeziona però alla persona e non alla disciplina. Chi fa sport sa che prima o poi arrivano le sconfitte, fanno parte del gioco stesso. Un vincente questo lo sa mentre il tifoso fatica a capire che si può perdere”.

Ma stando dall’altra parte si avverte la sfiducia e, dopo, danno fastidio quanti salgono sul carro del vincitore?

“Sono una persona con una buona memoria ma non mi è mai interessato andare a rinfacciare. Quello a cui tengo è proteggere il cerchio di persone che gode e si emoziona della vittoria almeno quanto me. Io voglio condividerla con loro, gli altri li ringrazio educatamente ma festeggio con chi gode davvero del mio successo: la mia famiglia, il team e gli amici”.

A proposito di famiglia, com’è stato il rapporto con i genitori nell’avvio della tua carriera da dilettante?

“I miei genitori non mi hanno mai messo pressione. Sono stato fortunato perché erano ‘acerbi’ dal punto di vista golfistico. Hanno conosciuto il golf con me e non si sono mai fatti prendere dai risultati né dalla foga. Questo, purtroppo, spesso non avviene e noto sempre più come verso i ragazzi siano riversate grandi aspettative e pressioni. I miei si rendevano conto di avere un figlio bravo ma non hanno mai avuto pretese. Certo, ci sono anche esempi di giocatori arrivati in alto con genitori molto esigenti, ma credo che un equilibrio famigliare sia importante e sano. Sono stato sgridato dai miei in diverse circostanze, ma per i comportamenti, non per i risultati”.

Comportamenti? Tu che sembri un lord in campo?

“Eh, non sono sempre stato come oggi. Ero ‘fumantino’. Ho fatto cose per le quali sono stato ripreso, ero molto più nervoso e irascibile. Pensavo meno”.

Ricordi un episodio in particolare?

“Beh, una volta ho rotto un marker di partenza dopo aver sbagliato un tee shot. Giocavo contro Viganò in una finale Cadetti. Ricordo che durante la premiazione mi hanno fatto scusare pubblicamente, mi sono vergognato e questa cosa è stata impattante al punto che mi è restata e ho capito di poter fare a meno di questi comportamenti. È importante che i giovani golfisti crescano con comportamenti giusti pagando quando sbagliano”.

Ci racconti come si passa dall’essere un giocatore che lancia i bastoni dopo gli errori a uno ‘zen golfer’?

“Ho smesso di compiere gesti di stizza quando, vedendolo negli altri, mi sono reso conto di quanto sia brutto. Ho capito che erano atteggiamenti che non mi piacevano e ho deciso che volevo essere diverso. Attenzione, non sto dicendo di tenere tutto dentro. Sfogarsi è importante, però c’è modo e modo. Veder lanciare un bastone o trattare male il caddie non è bello e quando l’ho capito ho smesso. Non sono diventato zen, l’istinto di sfogarsi c’è comunque ma mi trattengo”.

Sono passate alcune settimane dal successo in Sudafrica. Proviamo a riavvolgere il nastro, non tanto della cronaca ma delle sensazioni ed emozioni?

“Il golf è estremamente e totalmente imprevedibile. Arrivavo da un periodo nel quale non ero soddisfatto. Sentivo che stavo lavorando bene ma non vedevo i risultati. Non mi sentivo lontano ma non mi riuscivano le cose. Dopo il taglio mancato in Qatar mi sono fermato due settimane saltando il Kenya e lavorando per resettare. Nel SDC Championship ero partito bene ma ho giocato un brutto secondo giro. 

Ero virtualmente fuori al taglio ma ho imbucato dal bunker riuscendo a giocare nel weekend e risalendo sino al 36° posto. Questo mi ha dato slancio e fiducia perché mi ha fatto capire che potevo giocare bene. I risultati servono. Sono arrivato al Jonsson Workwear Open con un pochino più di calma e meno pressione. 

La gara è stata divisa in due parti: il pre-weekend e il weekend. Sono partito bene e venerdì ho fatto 61, frutto di un mind set perfetto”.

In passato hai avuto alti e bassi mentre lì non ci sono stati indugi. Non è stato però tutto semplice come è sembrato alla fine.

“Per niente. Ho lavorato mentalmente su determinati momenti della gara che mi davano più stress di altri: uno di questi era la metà gara. Giocare da leader dopo 61 è una delle cose più difficili specie in un campo dove hai la consapevolezza che se non fai almeno -4 perdi posizioni. Quando prendi il via pensi che se fai +1 al terzo giro e par la domenica finisci 38°, vanificando il 61. Non bisogna gestire ma mettersi nelle condizioni per giocare al meglio passo dopo passo, mattoncino dopo mattoncino. 

La domenica mattina ero sereno perché, nell’anno in cui ho ripreso la carta, essere due volte in contention nelle prime dieci gare sul tour, era motivo di soddisfazione. 

A quel punto me la sono giocata con la mente sgombra e senza la pressione di dover vincere a tutti i costi”.

Quindi non sei partito con in testa, ora vinco?

“Pensavo di poter vincere e ho fatto di tutto, buca dopo buca, per guadagnare colpi. Però non si può mai dare per scontato che ‘debba finire così’ perché c’è tanta altra gente per la quale ‘deve finire così’. Finire con quattro birdie sono cose che solo il golf ti può far vivere perché neanche tu che li realizzi sai da dove arrivino”.

Non ti nascondo che al momento dell’interruzione di due ore e mezza ho pensato di non voler essere al tuo posto. Leader con ancora due buche da giocare e 150 minuti per pensare che puoi mandare tutto a monte. Come si mantiene la calma?

“Non lo so! Non ero sereno, per niente. Ero agitato ma nel modo giusto. C’era la possibilità di vanificare tutto ma lavoriamo per gestire questi momenti e il lavoro serve da supporto. Un’altra volta magari finirò bogey – par e perderò la gara. Il golf è così, potrà capitare che mancherò il taglio ma può essere che queste cose facciano parte di un disegno più grande. Si lavora tanto e, a volte, come arrivano i risultati può sembrare strano”.

Come fai a non essere concentrato sul risultato mentre giochi?

“In verità non sono ancora bravo a farlo. Se manco due tagli mi vengono le paranoie. Però bisogna essere sportivi e accettare le cose come arrivano. Il golf ti può presentare di tutto e non sappiamo cosa possa accadere nel prossimo torneo. Quello che penso sia impostante è il lavoro fatto con costanza, per diventare un giocatore e una persona migliore. Sono contento che ho capito di me stesso determinate cose, so che funziono in una certo modo e per me è importante mantenere quella linea”.

Serenità, condizione mentale ottimale e mancanza di pressione eccessiva hanno sicuramente un peso importante. Hai fatto anche un lavoro tecnico in questi anni?

“Altroché. Per esempio, ho lavorato tanto con Roberto Zappa sui green con sedute non sempre facili perché ricche di ‘begli scambi’. L’anno scorso con il Claw Grip abbiamo dato una svolta migliorando la stabilità della faccia e con essa la fiducia. A Glendower ho avuto sensazioni sui green molto buone, specie sotto pressione. Però guardo sempre il pelo nell’uovo perché non mi posso fermare sul quanto sia stato bello. Mi concentro sulle settimane negative conscio di aver fatto dei miglioramenti per riuscire a capitalizzare nella settimana buona. Un ottimo lavoro è stato fatto anche con Søren Hansen per il gioco lungo e Alessandra Averna per la parte mentale”.

Tornare a vincere sul tour continentale, un tempo European Tour oggi DP World Tour, ha un sapore diverso rispetti ai successi sui circuiti minori?

“Si, è diverso rispetto a Challenge e Alps. Questa vittoria mi ricongiunge a quelle precedenti. Intendo dire: fino a un po’ di tempo fa era come se i quattro titoli del passato fossero un capitolo a parte. Ora, aver rivinto sul Tour maggiore dà un senso di continuità. È una sensazione diversa, anche se ogni volta che si finisce una gara in testa alla classifica lascia un sapore particolare e ha un valore, compreso quando si vince al Pelagone e sul Challenge Tour”.

Il successo era uno degli obiettivi della stagione, ora che è già arrivato cambiano i piani?

“Il golf è così. Avevo il ritorno alla vittoria come obiettivo a lungo termine, neanche necessariamente nel corso di quest’anno. Poi succede che si apre una porta e te ne trovi davanti altre. È come se fossi salito su un gradino, la mia prospettiva diventa diversa e mi devo guardare intorno per capire che panorama vedo. 

Il bello del DP World Tour è che non c’è un reale limite. Mi spiego: nell’Alps o sul Challenge puoi vincere tornei, l’ordine di merito ma l’obiettivo è salire di categoria. Nel DP ci sono tanti e possibili obiettivi che ci si trova davanti. Sarei contento di giocare le Olimpiadi perché ero stato Rio e, da sportivo, giocarle in Europa mi piacerebbe molto. Per il resto è molto presto”.

Nel tuo futuro c’è anche il PGA Tour?

“Se me lo guadagno sì, sarebbe un ulteriore step”.

Che poi, PGA, LIV o tour mondiale. Non è molto chiaro oggi. Che ne pensi di questa situazione?

“In questo momento c’è molta incertezza anche tra noi giocatori. È una situazione strana. Spero, per il bene del golf, in un circuito globale. Sinora le idee di Rory McIlroy sono state molto strumentalizzate ma penso che siano valide. Dubito che si sia vicini a una soluzione per arrivare a un tour simile a quello del tennis, dove non si fa parte di un circuito e per arrivare in alto basta giocare bene. Sicuramente sarebbe più giusto, democratico e coinvolgente”.