Siamo a fine 2025 e, come sempre, si tirano le somme. È stato un altro anno di transizione, in linea con gli ultimi: qualche progresso c’è stato, qualche segnale incoraggiante soprattutto nella seconda parte di stagione, ma nel complesso non posso dire di essere soddisfatto. Non quanto vorrei, almeno.

Le settimane finali negli Stati Uniti mi hanno però dato un po’ di fiducia: ho passato tagli importanti e assaporato di nuovo la sensazione di essere competitivo, di vedere il mio nome in posizioni che contano.

Negli Stati Uniti le classifiche sono talmente compatte che tre buche sbagliate su 72 possono farti perdere venti posizioni. All’inizio spesso ho mancato il taglio, poi ultimamente sono tornato a giocare anche nei weekend e questo mi ha consentito di prendere il ritmo e avere continuità. Arrivare intorno al 30° posto mi ha dato fiducia.

Come due anni fa, la Ryder Cup è stata la parentesi più intensa e gratificante della stagione. Mi ha impegnato molto, ma è proprio lì che ho trovato ulteriori motivazioni e respirato quell’adrenalina che a volte mi è mancata nel resto dell’anno. Fortunatamente sono integro fisicamente e ho vissuto un anno senza problemi. Non ho dovuto rinunciare a nessun torneo né giocato in condizioni precarie. Certo, la forma va e viene, ma il corpo ha retto.

La fatica dei viaggi si sente sempre di più – il jet lag non perdona, soprattutto con il passare degli anni – eppure sono riuscito a completare una stagione da 22, forse 23 gare, che mi ha permesso di non perdere ritmo e integrità. Giocare poco più di venti tornei è una scelta implicata dagli impegni e dalla famiglia.  Dal 2015 ho la carta, ma in realtà dal 2010 gioco regolarmente i quattro major, i WGC e diversi eventi da Top 50.

Per anni ho disputato più della metà delle mie gare negli Stati Uniti. È fantastico, certo, ma col tempo presenta un conto salato: stare così tanto lontano dalla famiglia pesa, anche se siamo privilegiati, anche se veniamo pagati bene.

Negli ultimi cinque/sei anni il panorama è cambiato drasticamente. La fine dei WGC, la nuova distribuzione dei punti nei major, la riduzione delle gare che “valgono davvero” sia sul PGA che sul DP World Tour… Tutto questo ha reso molto più complicato conciliare i due calendari. Certo, giocare bene i quattro Slam garantisce una buona stagione ma arrivarci in forma e performare non è scontato. Una volta bastavano 15-16 tornei, giocati bene, per mantenere la carta ed entrare negli eventi più prestigiosi. Oggi non è più così: o giochi tanto o fai fatica.

A tutto questo si aggiunge l’incertezza strutturale del nostro sport. Non ho informazioni precise su possibili partnership tra i tour, ma la mia impressione è che si stia avvicinando un punto di non ritorno. Non solo la frattura tra PGA e LIV, ma anche quella, meno evidente, tra PGA e DP World Tour.

L’alleanza attuale non funziona: gli americani si lamentano dell’apertura agli europei, gli europei dei pochi punti nella Race to Dubai. Alcuni cercano di dividersi tra i due circuiti, altri giocano solo negli USA, altri ancora restano in Europa. La verità è che nessuno è davvero contento.

La soluzione? O si va verso un vero tour mondiale – come nel tennis, con categorie di tornei e montepremi diversi – oppure è meglio che ognuno torni a casa propria, senza forzature. Il nuovo CEO del PGA Tour, arrivato dalla NFL, ha idee molto chiare: un calendario corto, ricchissimo, con pochi giocatori e circa venti tornei all’anno. Un modello radicale.

Per quanto mi riguarda, nel 2026 mi dedicherò al DP World Tour. Arriverò più preparato rispetto agli ultimi anni, anche grazie al lavoro ritrovato con Denis Pugh.

L’inverno sarà breve perché, dopo Sun City ci sarà già Dubai a metà gennaio. I campi europei sono molto differenti rispetto a quelli statunitensi e sono felice di tornarci a giocare con continuità. Con il ritorno nel Vecchio Continente la mia speranza è quella di regalarvi nuove soddisfazioni. Nel frattempo approfitto per ringraziarvi del vostro continuo supporto.

Ci vediamo in campo nel 2026, tanti auguri di Buone Feste a tutti!