La 43esima Ryder Cup si è chiusa per l’Europa golfistica nel peggiore dei modi: una sconfitta netta, fuori discussione, nei numeri come nei contenuti tecnici.

Il 19 a 9 subìto dalla squadra di Padraig Harrington, il peggior risultato di sempre dal 1979, anno da cui vengono chiamati anche i giocatori continentali e non più solo quelli britannici, non lascia molti dubbi.

Il divario tra le due squadre è di fatto lo specchio esatto dell’enorme disparità che attualmente esiste tra i due più grandi tour golfistici mondiali, PGA ed European. Due mondi che hanno avuto un’evoluzione diametralmente opposta negli ultimi anni.

Il primo, forte di sponsorizzazioni solide e multimilionarie, è cresciuto esponenzialmente a livello mediatico e tecnico, attirando tutti i più forti giocatori del mondo. Il secondo, alle prese invece con evidenti tagli di investimenti da parte di storici partner, ha cercato di trovare comunque il proprio spazio, provando ad arginare la fuga oltreoceano dei propri giocatori di punta e dei nuovi talenti.

Il team statunitense questa volta più che mai era francamente imbattibile: quando schieri otto dei primi dieci del World Ranking e il tuo ‘peggior’ elemento è Scottie Scheffler, il numero 21, parti già con le spalle ampiamente coperte.

L’Europa per conto suo, a parte il numero uno del mondo Jon Rahm, è arrivata a Whistling Straits con un pedigree diametralmente opposto a quello degli Yankee. Dopo lo spagnolo, bisognava infatti scorrere la classifica mondiale sino alla posizione numero 15 per trovare un altro nostro elemento, Rory McIlroy.

Ma se Rahm ha fatto ampiamente il suo ed è stato al termine una delle poche note positive di questa squadra europea a Whistling Straits (3,5 punti totalizzati su 5 match giocati), il nordirlandese è forse colui che più ha deluso in casa nostra.

Tre sconfitte pesantissime nei doppi (una nei foursome con Ian Poulter e due nei fourball, con Shane Lowry e ancora con Poluter) per un Rory che non è mai di fatto decollato, lontanissimo dagli standard a cui ci aveva abituati nelle precedenti edizioni di Ryder Cup.

Troppo brutto per essere vero quindi, e forse demoralizzato dallo strapotere tecnico degli americani per trovare dentro di sé la forza di combattere come ai bei tempi. Amara la sua vittoria nel singolo contro Xander Schauffele per 3&2 a giochi già ampiamente compromessi, il primo dei soli quattro punti che gli europei hanno racimolato nella decisiva giornata di domenica.

Dietro a lui il resto del team non ha certo brillato, anzi, ma non tutto quello che si è visto è da buttare. Il duo ispanico Jon Rahm/Sergio Garcia non ha tradito nei doppi, buone restano le prove al debutto sia di Viktor Hovland che di Shane Lowry, che hanno lottato come leoni in pieno spirito Ryder.

Impalpabili invece le prestazioni di Paul Casey (4 sconfitte su 4), Fitzpatrick e Wiesberger (3 su 3), così come ci si aspettava qualcosa di più anche da Tyrrell Hatton e da Tommy Fleetwood. Lee Westwood e Ian Poulter, due dei veterani del team, non sono riusciti a trascinare i compagni con il loro entusiasmo, seppelliti dai birdie americani sin dai primi match giocati.

Di lavoro nei 24 mesi che mancano alla prossima storica edizione in Italia al Marco Simone ce ne sarà quindi parecchio da fare in casa europea.

È tempo di voltare pagina, di non vivere più di ricordi dei miracoli di Medinah o di Parigi e di investire sui nuovi talenti del nostro golf di cui Viktor Hovland ne è di fatto l’espressione più brillante. Nomi quali quelli dei gemelli Rasmus e Nicolai Hojgaard bussano già alla porta, così come quello del nostro Guido Migliozzi, già quest’anno a un passo dalla qualificazione.

Serve un cambio generazionale netto, urge riportare entusiasmo a un gruppo che ha fatto cose sensazionali in passato ma che ora più che mai ha bisogno di una nuova identità e di rinnovati attori.

Così come è tempo di mettere mano anche al sistema di selezione europeo, troppo diverso e penalizzante rispetto a quello americano, che consente il doppio di wild card delle nostre (6 contro 3) premiando in questo modo coloro che arrivano più in palla all’evento.

Non sarà certamente questo l’elemento determinante per rimettere mano sulla coppa ma almeno ci permetterà di arrivare al Marco Simone con la miglior squadra possibile.

Poi, come sempre, sarà il campo a dire l’ultima parola.