Durante l’Hero Dubai Desert Classic di quest’anno è stata istituita per la prima volta una Mental Fitness and Recovery Zone. In essa i giocatori possono prendersi cura di sé, gestire la pressione mentale e mantenere la concentrazione nell’area dedicata al fitness mentale, mentre possono anche impegnarsi per mantenere livelli di prestazione ottimali nell’area di recupero della forma fisica. Quando la campionessa Lexi Thompson annunciò che non avrebbe partecipato al British Open nel 2018 dichiarò di aver bisogno di “tempo per ricaricare le batterie mentali e concentrarmi su me stessa, lontano dal golf professionistico”. Anche il grandissimo Jack Nicklaus ha confermato nel 1982 in una intervista a Golfweek che ha avuto “diversi periodi in cui sono arrivato quasi al limite del burnout”. Più recentemente, nel 2024 Mike Lorenzo-Vera è stato costretto a prendersi una pausa dal golf: “urlavo ogni notte, non riuscivo a dormire e mi sentivo come se stessi morendo” ha raccontato il giocatore francese.
In un mondo in cui il corpo è allenato al limite della perfezione, è spesso la mente a cedere per prima.
Ma forse questa separazione è un’illusione. Il golf, più di ogni altro sport, mette in mostra l’apparenza della distinzione mente-corpo. Infatti è un gioco fatto di coordinazione sottile, percezione, emozione, immaginazione. È impossibile capire il golf se si separano la testa dalla mano, l’intenzione dal movimento, il pensiero dall’equilibrio. Come scrive Maurice Merleau-Ponty, in Fenomenologia della percezione del 1945: “Io non ho un corpo. Io sono il mio corpo.” Il corpo non è un contenitore o uno strumento: è il modo in cui siamo nel mondo. Sul campo da golf questo “essere nel mondo” si fa visibile a ogni colpo.
Nella storia della filosofia, la frattura mente-corpo ha radici profonde.
René Descartes (noto anche come Cartesio), nel XVII secolo, affermava che “la mente è una sostanza pensante, il corpo una sostanza estesa.” (le definiva Res cogitans e res extensa). La mente è ciò che pensa, dubita, immagina, vuole. È immateriale, indivisibile, e non estesa nello spazio. Per Descartes, l’essenza della mente è il pensiero. Invece il corpo è dotato di estensione, volume, forma e movimento. Non pensa, ma occupa spazio ed è divisibile. Secondo Cartesio, possiamo concepire l’esistenza della mente senza quella del corpo (nel sogno, nell’illusione o nell’atto di pensare stesso). La mente è l’essenza dell’identità umana: “Cogito, ergo sum” – Penso, dunque sono è la sua frase più celebre.
La certezza dell’esistenza risiede nel pensiero, non nella percezione sensibile o nel corpo.
Ma questa visione ha un prezzo. Se separo il pensiero dal gesto, rischio di perdere il senso stesso dell’azione. A offrire una visione più armonica è Baruch Spinoza, per il quale mente e corpo non sono due cose, ma due modi della stessa sostanza. “La mente non comanda il corpo più di quanto il corpo comandi la mente” afferma nella sua opera Eticadel 1677. In questa prospettiva, il miglior golfista non è chi controlla il proprio corpo con la mente, ma chi ha imparato ad ascoltarlo, ad abitarlo, a fidarsi.
Le neuroscienze e la filosofia contemporanee hanno superato la separazione mente-corpo proposta dal dualismo cartesiano: considerano la mente come una funzione emergente del cervello, strettamente legata all’attività neurobiologica.
Emozioni, pensieri e coscienza sono il risultato dell’interazione tra processi cerebrali, corpo e ambiente.
I golfisti lo sanno bene: uno swing ben eseguito non è il risultato di un pensiero analitico cosciente, ma di una presenza totale del corpo e della mente nell’azione. È un gesto che si compie senza doverlo razionalizzare in ogni fase: sei ‘dentro’ il gesto non fuori a osservarlo da lontano.
Il filosofo Andy Clark, nel libro Surfing Uncertainty del 2016, sostiene che il cervello non è un organo passivo che registra informazioni, ma una macchina predittiva. In altre parole Il cervello costruisce modelli del mondo, continuamente aggiornati, per anticipare ciò che sta per accadere.
Ciò che percepiamo come ‘presente’, nel senso di momento presente, ora, è in realtà una previsione, una ricostruzione basata su segnali sensoriali e sull’interpretazione di ciò che probabilmente sta per succedere. Per esempio, quando vediamo una palla in movimento, il cervello anticipa la sua traiettoria e la posizione futura, consentendoci di reagire in tempo reale, ad esempio spostandoci.
Quello che per noi è ‘ora’ – ora mi sposto – non è frutto di ciò che sta accadendo ora, ma della previsione di quello che accadrà fra poco.
Clark si rifà al modello del predictive coding, secondo cui: 1) Il cervello genera ipotesi su ciò che sta arrivando dai sensi utilizzando ‘modelli’ ricavati dall’esperienza; 2) confronta queste ipotesi con i segnali reali che riceve; 3) se è il caso corregge l’errore predittivo, aggiornando i modelli mentali.
Ad esempio, quando stai per eseguire un putt, immagini mentalmente la traiettoria: il cervello simula la velocità della palla e l’effetto della pendenza del green a quella velocità. Se il colpo non segue la traiettoria prevista, la mente aggiorna i modelli di forza e direzione. Questo si chiama ‘errore predittivo’ che è la differenza tra ciò che il cervello si aspetta (in base ai suoi modelli) e ciò che realmente percepisce. È il segnale che qualcosa non va come previsto e che il cervello deve correggere le sue ipotesi per adattarsi meglio alla realtà. In sintesi, giochi sempre un futuro previsto. “Il cervello non attende che l’esperienza arrivi: la pre-costruisce.” Sempre secondo Clark.
Nel golf, come in altri sport di precisione, la performance ottimale si basa su previsioni ben calibrate: il cervello anticipa la velocità dello swing, la reazione del terreno, la distanza alla buca.
Ma sotto pressione – come durante un putt decisivo o un tee shot in un playoff – questo sistema predittivo può incepparsi. Secondo il modello del predictive coding il cervello funziona meglio quando le sue previsioni sulla realtà sono accurate. Ma quando l’ansia altera l’attenzione, il cervello inizia a dubitare dei suoi stessi modelli e aumentano gli errori predittivi. Il risultato? Il sistema si sovraccarica: la mente smette di fidarsi del corpo, il gesto perde fluidità, il movimento si irrigidisce. Questo è il meccanismo del cosiddetto choking under pressure: “La mente conscia prende il controllo di movimenti che dovrebbero essere automatici, e li rovina”, descritto dalla psicologa Sian Beilock.
In sostanza, non è lo stress in sé a bloccare il colpo, ma la rottura della fiducia nel sistema predittivo del cervello.
Il futuro simulato non è più affidabile. E il presente, invece di essere vissuto, viene analizzato. Il golfista si distacca dal gesto, ne diventa spettatore. E lo swing si irrigidisce, si spezza. Quando l’ansia prende il sopravvento e il gesto si irrigidisce, non serve più “pensare meno” o “distrarsi”. Serve pensare meglio. E qui entra in gioco la filosofia, che non offre ricette istantanee, ma pratiche di consapevolezza profonda.
Se il choking è il risultato della rottura della fiducia tra mente e corpo, allora la prima domanda filosofica è: su cosa baso la mia fiducia? È un’abitudine appresa perché ho fatto bene altre volte? O è una conferma che mi arriva dall’esterno, dall’apprezzamento e dai complimenti degli altri? È una sensazione che arriva dal corpo, mi sento proprio bene? Una ‘storia’ che mi racconto per motivarmi?
Prima di giocare prova a rispondere a queste due domande: di cosa posso dire con certezza di potermi fidare, qui e ora? Di cosa sto fingendo di fidarmi, ma in realtà sto solo sperando?
Questo aiuta a distinguere la fiducia autentica (esperienza, pratica, intuizione) da quella illusoria (immagine, aspettativa, paura). Sulla prima costruisci, della seconda liberati. Come distinguerle? La fiducia autentica la puoi riconoscere: è ciò che hai verificato nella tua esperienza. La fiducia illusoria si smaschera nel linguaggio che usiamo per descriverla. Le parole che spesso la accompagnano sono spie linguistiche che indicano una base fragile, immaginaria, o condizionata: “Devo…”, “Spero…”, “Vorrei…”. Cosa manca in queste parole? Manca la presenza, la conoscenza che deriva dall’esperienza e la concreta assunzione di responsabilità. E ricorda quel che diceva Michel de Montaigne: “Chi teme di soffrire soffre già di ciò che teme.”
Il caddie filosofo: mente e corpo
