Il caddie filosofo: il ritorno di Tiger e il tempo giusto
Il possibile rientro in gioco di Tiger Woods, con l’avvicinarsi del suo 50° compleanno, ha suscitato nuovo interesse negli ultimi mesi. In una recente intervista ha dichiarato di sperare di tornare a giocare verso marzo 2026. Ogni volta che Tiger riappare, il mondo del golf trattiene il fiato. Non perché ci aspettiamo miracoli – il suo corpo martoriato ha dato tutto quello che poteva dare – ma perché la sua presenza solleva una domanda che tocca chiunque giochi: quando è il momento di smettere?
Non è una domanda banale. Per un professionista come Tiger, smettere significa chiudere un capitolo identitario: lui è sempre stato ‘il golfista dominante’, e senza quella definizione, chi è?
Per noi dilettanti la questione è meno drammatica ma altrettanto reale. Arriva un giorno in cui il corpo non risponde più, in cui l’handicap sale invece di scendere, in cui la passione cede il passo alla fatica. Che cosa ci dice la filosofia su questo momento?
I greci avevano una parola per il ‘tempo giusto’: kairos.
A differenza di chronos, il tempo cronologico che scorre indifferente, kairos è il momento opportuno, l’istante in cui un’azione acquista il suo pieno significato. Smettere troppo presto è sprecare il proprio potenziale. Smettere troppo tardi è negare la realtà e umiliare ciò che si è stati.
Tiger Woods, in questo senso, si trova sospeso tra due kairos.
Il primo è già passato: era il momento in cui, dopo la vittoria al Masters 2019, avrebbe potuto ritirarsi da leggenda assoluta, con quindici major e un ritorno miracoloso completato.
Il secondo kairos – quello definitivo – è ancora davanti a lui, ma si avvicina. Ogni apparizione sul campo sembra un modo per rimandare quella decisione, per tenere aperta una porta che forse è già chiusa.
Il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre, in Dopo la virtù del 1981, introduce il concetto di ‘unità narrativa della vita’. Secondo MacIntyre, noi esseri umani comprendiamo noi stessi attraverso storie. Non siamo una collezione casuale di momenti: siamo racconti con un inizio, uno sviluppo e una fine. Scrive: “L’unità di una vita umana è l’unità di un racconto di ricerca.” La nostra identità non è data una volta per tutte, ma si costruisce nel tempo attraverso le nostre azioni e le nostre scelte.
Tiger Woods ha scritto uno dei racconti più straordinari nella storia dello sport. Ma ogni racconto, per avere senso, deve avere una conclusione coerente.
Il problema di Tiger – e di molti atleti che faticano a lasciare – è che la fine del racconto sportivo sembra coincidere con la fine del senso della propria vita. Se smetto di giocare, chi sono? Se non sono più ‘Tiger Woods il golfista’, cosa rimane?
MacIntyre risponderebbe che questa è una visione riduttiva dell’identità narrativa. La vita è fatta di capitoli diversi, di storie dentro storie. Tiger è stato il bambino prodigio, il dominatore assoluto, l’uomo caduto e risorto, il campione maturo. Ora potrebbe essere il maestro, il mentore, il custode della tradizione. Ma per aprire quel nuovo capitolo, deve avere il coraggio di chiudere quello precedente.
Un esempio illuminante viene da Jack Nicklaus. ‘Golden Bear’ ha saputo ritirarsi con grazia, senza trascinare la carriera oltre il necessario. Non ha cercato disperatamente l’ultimo Major dopo i cinquant’anni. Ha capito il suo kairos e lo ha rispettato. Oggi Nicklaus è una figura rispettata non solo per ciò che ha vinto, ma per come ha saputo lasciare. La sua identità narrativa è completa, armoniosa. Non c’è traccia di quel senso di sconfitta che accompagna chi resta troppo a lungo.
La filosofia del linguaggio del novecento ci ricorda che il significato delle parole – e delle azioni – emerge dal loro uso nel contesto. “Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio”.
Applicato al golf, questo significa che continuare a giocare quando il corpo non regge più non è ‘essere golfista’: è qualcos’altro. È forse nostalgia, o paura del vuoto, o incapacità di re-immaginarsi. Tiger che gioca oggi non è lo stesso ‘golfista’ del Tiger del 2000. Il suo ‘uso’ del golf è cambiato: non è più la dominazione, ma la presenza simbolica.
E qui nasce una domanda: c’è qualcosa di sbagliato in questo? Forse no, se Tiger è consapevole. Se torna a giocare non per illudersi di poter ancora competere al massimo livello ma, ad esempio, per trasmettere qualcosa al figlio Charlie, per godere del tempo insieme. Allora il suo ‘uso’ del golf è coerente con la nuova fase della sua vita. Il problema sorge solo se Tiger – o qualunque golfista vicino al ritiro – non accetta il cambiamento di ruolo e continua a inseguire fantasmi.
Per noi dilettanti, la questione del ‘quando smettere’ è meno pubblica ma altrettanto urgente. Molti golfisti ultraottantenni continuano a giocare con gioia, adattando il gioco alle loro capacità. Altri smettono a sessant’anni perché non sopportano di non essere più quelli di una volta. La differenza non è nel corpo, ma nella capacità di riscrivere la propria narrazione.
Non esistono regole universali su quando smettere di giocare. Esiste solo la domanda onesta: perché sto ancora giocando? Se la risposta è “perché mi dà gioia, anche se gioco peggio di prima,” allora continua. Se la risposta è “perché non so chi sono senza questo,” allora forse è il momento di fermarsi e riflettere.
Il filosofo Derek Parfit, nel suo Reasons and Persons del 1984, sostiene che l’identità personale nel tempo è più fluida di quanto pensiamo. Non siamo la stessa persona di dieci anni fa: siamo cambiati fisicamente, psicologicamente, moralmente. Scrive: “La mia esistenza presuppone solo connessioni psicologiche sovrapposte.” In altre parole, ciò che ci lega al nostro ‘io passato’ sono solo continuità parziali di memoria, carattere, progetti. Tiger Woods a quarantanove anni non è il Tiger Woods a ventiquattro. Non dovrebbe fingere di esserlo.
Questo vale anche per noi. Il golfista che eravamo a trent’anni – quello che tirava un drive a 280 metri e sognava di scendere sotto il par (non è il mio caso, mai fatto nulla del genere!) – non è il golfista che siamo oltre i sessantacinque. E va bene così. Possiamo ancora essere golfisti, ma dobbiamo accettare che il significato del termine è cambiato. Non è tradimento: è evoluzione.
C’è una scena commovente nel documentario su Tiger Woods prodotto da HBO. Tiger, dopo l’ennesimo intervento chirurgico, dice: “Non so se riuscirò mai più a giocare. E se non posso giocare a golf, chi sono?” È una domanda che rivela la fragilità di un’identità costruita su un’unica narrazione. MacIntyre direbbe che Tiger deve trovare altre storie dentro di sé: il padre, il filantropo, il custode del gioco, l’organizzatore. Ma per farlo, deve avere il coraggio di chiudere la storia del ‘Tiger competitivo’ in modo onorevole.
Il momento giusto per smettere arriva quando il gioco smette di arricchire la nostra vita e comincia a impoverirla. Quando l’ostinazione sostituisce la passione. Quando la paura del vuoto diventa più forte della gioia del gesto.
Tiger Woods probabilmente continuerà a giocare ancora per qualche anno, in forme sempre più limitate. E va bene così, finché lo fa con consapevolezza. Il vero tradimento non è smettere ‘troppo presto’ o ‘troppo tardi’: è non saper riconoscere il kairos, il tempo giusto, quando bussa alla porta.
Aristotele ci ricorda che la vita buona non è questione di durata, ma di qualità. Non conta per quanti anni giochi a golf. Conta che ogni colpo, fino all’ultimo, sia vissuto con presenza, gratitudine e verità.
E quando arriverà l’ultimo putt della ‘carriera’, spero che ciascuno di noi sappia riconoscerlo per quello che è: non una fine, ma il compimento di una storia ben raccontata.
Il caddie filosofo: il ritorno di Tiger e il tempo giusto