The Open, il major più antico del mondo torna in Irlanda del Nord, al Royal Portrush, sei anni dopo il trionfo di Shane Lowry. Da allora, tra attese, fantasmi e grandi nomi, Rory McIlroy guida la carica di un Vecchio Continente a caccia della Claret Jug davanti al pubblico di casa
Difficile spiegare in poche parole cosa rappresenti l’Open Championship per noi, amanti del golf. È quel silenzio nobile e britannico, rotto solo dal fruscio del vento del nord, dalle onde del mare spesso a pochi metri dalle buche, dal gracchiare dei gabbiani e dagli applausi sempre ordinati, competenti e mai fuori luogo.
Qui non si urla, si ascolta, si respira e si vive il golf nella sua forma più pura.
Questo torneo è in assoluto la sfida più̀ affascinante, più̀ dura e unica nel suo genere e vincerla ha un sapore assolutamente diverso. Per arrivare ad alzare la Claret Jug, una delle più̀ grandi icone sportive, bisogna prima aver compreso la vera essenza del golf, poi domato il peso della tradizione e, infine, sconfitto la forza degli elementi naturali e le incredibili asperità dei links britannici. Determinazione, creatività̀, talento, rispetto, intuito: sono questi gli elementi indispensabili per primeggiare qui.
E mai come quest’anno, dal 17 al 20 luglio, queste caratteristiche saranno fondamentali per uscire indenni dalle 18 buche del Royal Portrush.
Per questa 153esima edizione ci trasferiamo infatti in Irlanda del Nord, a un’ora di macchina da Belfast. Siamo nel circolo di casa del grande Darren Clarke, Open Champion a Royal St George’s nel 2011, in quello spicchio di Irlanda che ha regalato al nostro sport altri due enormi talenti e major winner, Rory McIlroy e Graeme McDowell.
Sarà la terza volta nella sua storia che il circolo nordirlandese ospiterà l’unico major europeo, dopo il 1951 e il 2019, anno che nessun tifoso locale potrà mai dimenticare.
Sì, perché allora a trionfare è stato Shane Lowry, acclamato da una folla in delirio sotto la pioggia, in una di quelle domeniche che restano impresse nella memoria collettiva.
All’ingresso del paese, c’è infatti un murales con il volto di Lowry, imponente e vibrante, simbolo di un trionfo che ha unito un’intera isola sotto il segno del golf.
Un dipinto che celebra molto più di un successo sportivo
È l’omaggio a un campione irlandese, nato nella Repubblica ma acclamato a Portrush, nel cuore dell’Irlanda del Nord, come un figlio di casa. Il volto sorridente di Shane, pennellato su una parete vicina al circolo, è diventato simbolo dell’anima golfistica di questa terra: passionale, accogliente, fiera delle proprie radici e capace di esaltarsi per chi porta in alto i suoi colori, senza confini politici ma con un unico cuore sportivo.
Tra pochi giorni proprio Lowry, insieme al connazionale e amico McIlroy, sarà uno dei protagonisti più attesi.
Entrambi hanno l’Open nel sangue, entrambi conoscono ogni piega di questi fairway bruciati dal vento e ogni inganno dei green incastonati tra dune e orizzonti marini. E proprio McIlroy, nato a pochi chilometri da qui, ha un conto aperto con questo campo: nel 2019 mancò clamorosamente il taglio con un primo giro da incubo in 79 colpi, e da allora aspetta di prendersi la sua rivincita. Rory torna però “a casa” con il peso di un anno iniziato in vetta ma finito, per ora, in una spirale di silenzi e smarrimento.
Dopo il trionfo al Masters e dopo aver completato il Grande Slam, paradossalmente qualcosa sembra essersi rotto. Come se, raggiunto l’obiettivo più agognato, fosse venuto meno quel fuoco interiore che lo aveva tenuto in corsa per anni nonostante pressioni mediatiche e attese sempre più pesanti.
Da Augusta in poi, il ragazzo di Holywood è apparso spento, quasi svuotato.
Eppure, ora che l’Open Championship si gioca sui fairway della sua infanzia, nessuno può permettersi di escluderlo perché quando ritrova motivazione e magia, è capace di dominare il torneo con una naturalezza disarmante.
The Open: dominio americano
Oltre ai due padroni di casa appena citati, c’è grande attesa per una vera e propria armata a Stelle e Strisce capitanata da Scottie Scheffler, numero uno al mondo, che anche quest’anno sembra giocare un altro sport. Così come Xander Schauffele, defending champion in carica, e Bryson DeChambeau che dovrà dimostrare di essere in grado di domare contesti come questi, ben diversi dai parkland americani. In ottimo stato di forma anche Sam Burns e Keegan Bradley, prossimo capitano di Ryder Cup e, con ogni probabilità, anche giocatore. E ancora Collin Morikawa, che ha già una Claret Jug nella libreria di casa, oltre a Justin Thomas, tornato alla vittoria nell’aprile scorso dopo tre anni di astinenza.
Se guardiamo l’albo d’oro dell’Open Championship, da sei anni a questa parte il vincitore arriva da Oltreoceano.
Un digiuno lungo e amaro, interrotto solo dalla parentesi australiana di Cameron Smith nel 2022. È un dato che fa rumore, specie per un torneo che storicamente ha rappresentato l’orgoglio del golf britannico ed europeo. È proprio dal 2019, qua al Royal Portrush, che nessun europeo è riuscito a vincere l’Open. Troppi americani sul gradino più alto del podio. La speranza del Vecchio Continente è che proprio qui si possa invertire la rotta.
Il compito è affidato a un nutrito numero di giovani fuoriclasse come Viktor Hovland, Ludvig Aberg e Robert MacIntyre senza dimenticare i due beniamini di cara McIlroy e Lowry e tre italiani.
Le nostre speranze sono riposte su Francesco Molinari, Guido Migliozzi e Matteo Manassero che con i links ha sempre avuto un rapporto speciale.
Ma tra le vittorie più auspicabili quella di Tommy Fleetwood è forse la più attesa. Sì, perché c’è un fantasma che l’inglese non riesce a scrollarsi di dosso, e ha la forma di una vittoria mancata sul PGA Tour. Sei volte secondo su 84 eventi giocati in America. L’ultimo episodio è arrivato poco meno di un mese fa al Travelers Championship. Fleetwood non è certo un outsider: solido, carismatico, amato dai tifosi e punto fermo in Ryder Cup, ha già brillato sette volte sul DP World Tour ma sul Tour americano il successo continua a sfuggirgli.
Eppure, il destino potrebbe riservargli un palcoscenico perfetto per il riscatto: l’Open Championship.
In un luogo dove il golf è emozione pura e il pubblico sa riconoscere il valore della perseveranza, Tommy ha l’occasione di spezzare l’incantesimo. Per farlo servirà tutto ciò che il golf richiede ai massimi livelli: determinazione, creatività, talento, intuito. Ma, soprattutto, rispetto. Per il campo, per gli avversari, per la tradizione. Perché a vincere l’Open non è mai solo il più forte: è quello che riesce ad adattarsi, a domare gli elementi, a piegarsi senza spezzarsi al volere dei links. Solo allora si può alzare la Claret Jug e sentire di aver conquistato non un trofeo, ma un pezzo di eternità.
Ma c’è un’atmosfera speciale quest’anno forse perché il vento sussurra che potrebbe essere la volta buona per riportare la Claret Jug in Europa. E magari proprio tra le mani di chi, da queste parti, il golf lo ha respirato sin da bambino.
