Il ritorno al successo di Manassero sul DP World Tour a distanza di undici anni è uno straordinario esempio di forza e resilienza. attraverso l’impegno, la dedizione e la forza di volontà anche gli ostacoli più insormontabili sul nostro cammino possono essere superati 

Turnberry, Scozia, 16 luglio 2009. Una luce meravigliosa illumina le inconfondibili ondulazioni dell’Ailsa Course, teatro del 138° Open Championship. L’atmosfera è quella elettrica del primo giro, le tribune sono prese d’assalto sin dall’alba e la voglia di assistere a qualcosa di magico si avverte nell’aria. “Andiamo sul tee della buca 1 – mi sussurra Maria Pia Gennaro, a quei tempi direttore di Golf & Turismo, con cui ho condiviso indimenticabili edizioni del major britannico e non solo. “Sta per partire Matteo Manassero – aggiunge -, andiamo a seguirlo”.

Ammetto che prima di allora non lo avevo ancora visto giocare, ma scriverne sì

Il 20 giugno di quello stesso anno, infatti, si era portato a casa a soli 16 anni nientemeno che l’Amateur Championship. Il suo volto era finito su tutti i media (Golf & Turismo compreso, che gli dedicò la copertina di luglio), primo italiano a vincere il prestigioso torneo e il più giovane in assoluto dalla prima edizione del 1885. 

Il flight che gli era stato riservato a Turnberry faceva tremare le gambe: Sergio Garcia, idolo dei ragazzini di mezzo mondo, e la leggenda dell’Open, Tom Watson

L’annuncio del suo nome da parte di Ivor Robson, iconico e compianto starter voce per 40 anni del major britannico, scatena un boato impressionante. Pochi secondi e un religioso silenzio cala sul tee. Sguardo vispo, concentrato, Matteo non tradisce alcuna emozione e fa partire un ferro perfetto in centro pista. Watson e Garcia incrociano lo sguardo in segno di assenso, seguito da un tradizionale ‘Good shot’.
Un commento che i due, con sempre più enfasi, ripeteranno all’infinito in quelle 36 buche che hanno incoronato Manassero tra le nuove stelle del golf mondiale. Inutile dire che non mi persi un singolo colpo, ritrovandomi ad esultare e ad abbracciarmi con gente mai vista a ogni birdie del nostro ragazzo prodigio.

Venerdì l’apoteosi: Watson e Garcia lasciano a Manassero l’onore di entrare per primo in green alla 18, per una standing ovation da lacrime e pelle d’oca.

Il resto è storia, quella che ha portato il talento veronese a frantumare ogni record di precocità sul DP World Tour.

Dal 2010 al 2013 conquista quattro titoli, l’ultimo il più pesante, il BMW PGA Championship a Wentworth, davanti a tutto il gotha. 

Si dice che il golf sia per molti versi lo specchio della nostra vita: difficile pensare che sia sempre tutto in discesa. E così è stato anche per Matteo, che dopo gloria e trofei ha dovuto affrontare la parte più complicata della sua carriera, quella in cui i risultati diventano pesanti e spietati e in cui tutto sembra improvvisamente difficile da gestire.
Di lui mi ha sempre colpito lo sguardo. Oltre che a bucare lo schermo, trasmette energia, positività, carattere. Perché di fatto stiamo parlando di un ragazzo fuori dall’ordinario. Perché chi passa da numero 25 del mondo a quasi scomparire dai radar golfistici e ha poi la capacità di non mollare, anzi, di continuare a crederci e a lavorare con umiltà e passione, non può che ritrovare la luce.

Quei 3.492 giorni tra Wentworth e il suo ritorno al successo sul DP World Tour non sono nient’altro che dedizione e resilienza, applicazione e sudore, con l’unico obiettivo di ritrovare la convinzione nei propri mezzi e ricostruire la fiducia nel suo gioco.

Il talento non è mai stato in discussione, e ripartendo da questo ha ritrovato la magia di un tempo.

Dall’Alps al Challenge sino al DP World Tour, Matteo ha ripercorso il cammino come fosse uno qualunque dei tanti ragazzi che ogni anno aspirano a diventare una stella. E da campione qual è ci è riuscito. Provate ora a incrociare il suo sguardo: è tornato a brillare, come e più di prima.