Lo chiamano così da sempre Philip Alfred Mickelson, per un curioso scherzo del destino.

Con soli 18 mesi di vita, nel 1971, il nonno materno, che aveva fatto il caddie a Pebble Beach per anni, gli mette per la prima volta un bastone in mano.

È amore a prima vista. Il piccolo Phil va a seguire il padre, Philip senior, pilota di linea con la passione per il golf. Cerca di emularlo osservandolo swingare mettendosi di fronte a lui. Inizia così, scimmiottando l’immagine speculare del papà, a muoversi con un movimento da mancino, seppur fosse destro.

Già prima di andare a scuola alla San Diego High School è un fenomeno. Frequenta la Arizona State University e conquista 16 tornei, compresi tre titoli NCAA e uno U.S. Amateur.

Basterebbe questo per capire che quel ragazzone solare di 191 centimetri, con il sorriso sempre stampato in faccia e dalle mani d’oro, sarebbe diventato qualcuno da ricordare.

Il 22 gennaio 1991 viene invitato a giocare ancora dilettante il suo primo torneo del PGA Tour, il Northern Telecom Open a Tucson, in quell’Arizona che lo ha formato e fatto diventare uomo. Gioca come un angelo e finisce davanti a tutti.

Ad attenderlo alla 18 c’è l’intera famiglia Mickelson: papà Philip, mamma Mary e i fratelli Tina e Tim, il suo attuale caddie.

Sono passati 30 anni da quelle 18 buche che hanno segnato l’inizio di una delle carriere più brillanti della storia del golf: 55 titoli, 45 sul PGA Tour, sei major, quattro WGC, oltre 90 milioni guadagnati in gara, dietro solo al suo rivale di sempre, Tiger Woods, 12 volte giocatore di Ryder e di Presidents Cup.

Per più di 25 anni è sempre stato nei Top 50 del World Ranking e per oltre 700 settimane tra i primi dieci. Unica pecca: mai stato numero uno, e il perché chiedetelo a Woods. Ma non se ne è mai fatto un cruccio, non è uno che vive di rimpianti.

Se Tiger non fosse diventato Tiger forse Mickelson non avrebbe atteso tanto per portarsi a casa il suo primo major, il Masters, giunto solo nel 2004. Forse oggi conterebbe almeno il doppio di tornei dello Slam, o forse no. Perché se Phil è diventato come Tiger un’icona una parte del suo successo la deve proprio al suo eterno rivale, e lui lo sa bene.

Quando ad aprile del 2019 Woods scrisse una delle pagine più incredibili dello sport, tornando a vincere il Masters a 43 anni, uno tra i primi a complimentarsi fu proprio lui. E lo stesso accadde quando Tiger conquistò nell’ottobre dello stesso anno il suo 82° titolo sul PGA Tour, eguagliando il record di Sam Snead.

Il 16 giugno 2020 ha compiuto 50 anni. Per chi è Tour Player da una vita e lo è stato ai massimi livelli, giocare sul PGA Tour Champions non è la stessa cosa. È il segnale del tempo che corre inesorabile senza guardare in faccia nessuno, l’inizio di una fisiologica decadenza.

Per molti, ma non certo per lui. Il fisico è asciutto più che mai, merito di un digiuno a intermittenza che lo ha reso tonico come ai tempi del college. Lavora, suda, si allena con la stessa intensità di sempre. È diventato il re dei social, il suo stile di vita fa tendenza, la sua popolarità, se ancora ce ne fosse bisogno, è alle stelle.

Ad aprile la USGA gli offre una exemption per giocare lo U.S. Open di Torrey Pines, nella sua San Diego. Lui rifiuta: “Se ci vado è perché me lo sono meritato”. Nella sua testa c’è la convinzione che qualcosa di speciale possa ancora accadere.

Il PGA Championship è l’appuntamento con la storia: a 50 anni, 11 mesi e 8 giorni diventa il più anziano giocatore a conquistare un major. Tiger Woods, dalla sua casa di Jupiter, posta: “Sei una vera ispirazione per tutti”.

Lefty sorride, alza il pollice al cielo e trattiene le lacrime a stento. Ha vinto la sua battaglia, quella di dimostrare a sé stesso e al mondo che è ancora un numero uno, anche se numero uno non lo è mai stato.

Lo U.S. Open lo attende ora per una nuova sfida. Torna a Torrey Pines da vincitore, non da comparsa, là dove tutto ebbe inizio, nel 1993, dove conquistò il suo primo torneo da pro, il Buick Invitational.

Ma soprattutto ha insegnato a tutti che nella vita, come nel golf, niente è impossibile.

Basta crederci, e sudare.