Nell’ottobre del 1978 un bambino di poco meno di tre anni appare con sacca in spalla in prima serata in una delle trasmissioni televisive più seguite dell’epoca negli Stati Uniti, il Mike Douglas Show.

Tira qualche colpo sotto gli occhi increduli dei presenti. Lo swing non è quello scomposto di chi è alle prime armi ma è straordinariamente ritmato, solido e già parecchio evoluto.

Mike Douglas aveva scovato quel bambino prodigio qualche giorno prima osservando un servizio di una televisione californiana che mostrava giovani golfisti alle prime armi. “Lo voglio in trasmissione, questo è un predestinato”.

Nasce così la leggenda del più grande giocatore che questo sport abbia mai avuto. Quella sera al piccolo Eldrick Tont Woods, per tutti Tiger, sono bastati pochi minuti per bucare letteralmente lo schermo, catturare l’attenzione di tutto il mondo mediatico e offuscare persino due icone del cinema americano, James Stewart e Bob Hope, presenti al suo fianco nello show.

Da quella celebre prima apparizione la vita sportiva e privata di Tiger è sempre stata sotto i riflettori, nel bene e molto spesso anche nel male. Quarantaquattro anni dopo, l’Effetto Tiger, nato di fatto quella sera, è ancora un fenomeno mediatico planetario che niente e nessuno riesce a scalfire.

In mezzo c’è la storia di un ragazzo di colore che ha abbattuto ogni barriera sociale e qualsiasi record. Ha trasformato il gioco e amplificato a dismisura il suo business, e ha vinto 15 major e 110 tornei professionistici.

Numeri che solo in parte spiegano la grandezza di un campione in grado di rimanere in testa alla classifica mondiale per 683 settimane (di cui 281 consecutive). E che nel 2014 è diventato il primo sportivo del pianeta a infrangere la barriera del miliardo di dollari in guadagni.

Davanti a Sua Maestà Tiger tutto è passato e continua a passare in secondo piano. Come ha perfettamente ricordato in questo numero uno dei nostri editorialisti, Silvio Grappasonni, la voce del golf in tivù in Italia, il buon Scottie Scheffler, fresco numero uno del mondo e vincitore del Masters, avrebbe potuto presentarsi alla cerimonia della Giacca Verde nudo che nessuno se ne sarebbe accorto.

Un esempio certamente un po’ estremo per far capire quale e quanto sia ancora oggi solido il rapporto tra Tiger, i media e il grande pubblico, e non parliamo di solo quello golfistico. Quella a cui abbiamo assistito ad Augusta lo scorso aprile è solo l’ultima conferma in ordine di tempo di un dominio mediatico che ormai dura da 25 anni. Ovvero dall’inizio della carriera professionistica di Woods.

In questo quarto di secolo il golf ha sfornato altri nuovi campioni che per carisma e talento non hanno di certo sfigurato, ma che non sono mai stati di fatto in grado di tenere il suo passo, raccogliendo solo le briciole.

Il 30 dicembre prossimo Tiger festeggerà 47 anni ma, a differenza di molti suoi colleghi, ci arriva con un fisico logorato da mille infortuni. Cinque interventi al ginocchio, altrettanti alla schiena tra cui una fusione spinale e un incidente in cui ha quasi rischiato l’amputazione della gamba destra.

Solo la sua straordinaria determinazione gli ha permesso l’ennesimo ritorno al golf professionistico a poco più di 500 giorni da quel terribile 23 febbraio 2021. L’ennesimo miracolo sportivo ha reso epica una carriera già di per sé straordinaria.

Passano gli anni, nuovi numeri uno si alternano ma il Re resta saldo al suo posto. Dove ora possa arrivare nessuno lo può sapere, ma una cosa è certa: mai dire mai quando c’è Tiger di mezzo. Per buona pace di Scheffler, Rahm, Morikawa e compagni. Per ora il loro ruolo resta quello dei semplici comprimari. Del resto di Tiger, ovvero di fenomeni veri, ne nasce uno ogni cent’anni.