Nella sua lingua di origine, il gaelico, è Éireann. Ma il suo soprannome, forse più conosciuto, è l’isola di smeraldo.

A chiamarla così, nel XVIII secolo, per primo fu lo scrittore e medico William Drennan, in una poesia intitolata “When Erin First Rose”, in cui il nome di donna (Erin) non è altro che la traduzione inglese di Éireann.

E l’Irlanda, come avrete certo capito, quel soprannome, di cui va orgogliosa, lo merita davvero.

Verde a perdifiato, in mille tonalità diverse, ma sempre profonde e intense. Fra boschi, foreste, macchie e giardini, sono ben 900 le specie di piante native dell’isola. Ma evidentemente tutto questo non basta. Infatti, secondo il Climate Action Plan (il piano di sviluppo ecologico lanciato nel 2019) uno dei cardini è rappresentato dai 440 milioni di alberi piantati da qui al 2040. Il 70 per cento si tratterà da conifere, mentre il rimanente 30 verrà destinato a piante con foglia larga.

In un Paese del genere il golf non poteva che essere praticato e diffuso dovunque, con un occhio attento al turismo che riesce a generare. Nomi come Ballybunion, Lahinch, Portmarnock, European, Mount Juliet o K Club, che nel 2006 ha ospitato l’unica Ryder Cup irlandese, sono nel taccuino dei sogni di qualunque golfista. Percorsi magnifici, spesso links ma senza dimenticare meravigliosi parkland, rappresentano la punta di diamante di circa 500 campi sparsi in tutta la nazione, fra la costa e le contee interne.

Al di là di considerazioni tecniche e comunque ai vertici assoluti irlandesi, la palma di più spettacolare crediamo spetti incontestabilmente all’Old Head of Kinsale. Il primo a parlarcene è stato, una ventina di anni fa, Peter Erlacher, con il fratello Manfred proprietario della nota casa di abbigliamento Chervò. Durante un’intervista, alla domanda “qual è il campo più bello sul quale hai giocato”, la risposta fu immediata. “Old Head of Kinsale. Sicuro!”Detto da uno che ha girato mezzo mondo fra un campo e l’altro di golf, il giudizio aveva certo un suo valore. E dopo esserci documentati appena finiti di nuovo davanti al computer, non potevamo che essere d’accordo in pieno con lui.

Al limite sud est dell’Irlanda, l’incredibile lingua di roccia su cui si stendono le 18 buche si infila nell’Oceano Atlantico per oltre tre chilometri, come la gigantesca prua di una nave. Grandiose pareti rocciose, alte quasi 100 metri, piombano fra le onde spesso a perpendicolo. Sulla punta estrema, inevitabile, uno dei fari più noti e fotografati del mondo. Proprio lì davanti, a una decina di miglia, si compì la tragedia del Lusitania, transatlantico britannico affondato il 7 maggio 1915, durante la Prima Guerra Mondiale, dai siluri dal sommergibile tedesco U-20. In totale, il disastro provocò circa 1.200 vittime.

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Tee shot dal castello di Downmacpatrick

Disegnate da Ron Kirby (in precedenza architetto di Jack Nicklaus’s Golf Design Services), affiancato da un team di cinque esperti irlandesi, le 18 buche dell’Old Head coprono per intero l’enorme sperone di roccia. Nel punto più stretto misura poco più di 100 metri, nel punto in cui si congiunge con la terra, per poi allargarsi e richiudersi poco dopo, alla punta del faro. Visto dal cielo, il promontorio sembra la ciclopica punta di una lancia.

Il percorso va da 4.950 (tee avanzato donne) a 6.500 metri (tee da campionato). Par totale del campo è un classico 72, diviso in otto par 4, cinque par 5 e altrettanti par 3. Il campo prende il via dalle rovine del castello di Downmacpatrick, che ha le sue lontane origini affondate nel III secolo.

Le 18 buche occupano tutta l’area dell’Old Head. Fin dall’arrivo la vista è impressionante, con l’oceano su entrambi i lati dello stretto istmo e là, in fondo, la sagoma a strisce bianche e nere del faro, che si staglia contro il cielo. Ci sono come minimo sei tee per ogni buca, fatto che rende più facile la vita agli handicap più alti. La difficoltà non è da sesto grado, in assenza di vento e scegliendo con onestà la partenza giusta per la propria tecnica. Quando però monta la brezza tesa dell’oceano, le cose si fanno molto più complicate.

Nove buche a precipizio sull’Atlantico

Il percorso è gestito giorno per giorno in base alle condizioni tempo previsto. La metà delle buche si affaccia sullo strapiombo delle rocce che delineano la penisola. Fra queste cinque (2, 3, 4, 12 e 13) hanno questo incredibile “fuori limite” naturale sulla sinistra e quindi puniscono i ganci. Le altre (7, 15, 16 e 17) invece rendono dura la vita a chi di solito è portato a fare slice.

Molte sono le buche memorabili dell’Old Head, fra cui potremmo inserire tutte quelle che abbiamo già citato. Modellate in maniera fantastica dai bordi delle pareti che delimitano l’Old Head, propongono panorami mozzafiato, che potrebbero creare però qualche problema a chi soffre di vertigini. Signature hole è comunque la 17, denominata “Lighthouse” per il semplice motivo che è il faro a dominare tutta la scena di questo meraviglioso par 5, in cui portare a casa il par è sempre un successo. Indimenticabili comunque anche l’altro par 5 della 12 e il gran finale della 18, par 4 che per i migliori, con partenza molto rialzata, propone un colpo d’occhio da cartolina.

Una bella riserva di palline è consigliata perché, se si va fuori dal seminato, molto spesso sono irrecuperabili. Non esistono ostacoli d’acqua, ma precipizi, bunker e grandi cespugli di piante spinose bastano e avanzano. In più la variabile meteo, come già accennato, può stravolgere l’indice di difficoltà del campo. E per questo bisognerebbe fare un offerta a Giove Pluvio, spesso così generoso con le terre irlandesi, perché si astenesse da fare la sua comparsa. Il ricordo dell’Old Head of Kinsale, per restare al vertice del vostro album dei ricordi, ha bisogno di un luminoso alleato. Il sole.

Le immagini di questo servizio e alcune note sul percorso dell’Old Head of Kinsale erano state raccolte dal collega Paolo Ferrari, prematuramente scomparso. A lui dedichiamo, con commosso ricordo, questo articolo.