Nel 1995, a Oak Hill, Seve Ballesteros affrontò Tom Lehman in un match destinato a entrare nella storia della Ryder Cup dimostrando perché è una leggenda europea. Pur cedendo per 4&3, lo spagnolo trasformò il corso della sfida con i suoi colpi geniali e un carisma straordinario
Il sabato sera di Ryder Cup è un momento sospeso, quello della verità. Quando cala il silenzio nello spogliatoio, i capitani hanno il compito più delicato: compilare la lista dei singoli. Non è semplice strategia, è psicologia pura. Non sempre conviene mettere i più forti a chiudere: lì, in fondo al tabellone, servono uomini di ghiaccio, capaci di reggere quando il cielo sembra crollare e il terreno vibrare sotto i piedi. I giocatori non lo ammetteranno mai, ma tutti temono quel ruolo. Nelle retrovie della lineup si respira la stessa paura dei soldati prima di uno sbarco. E mentre qualcuno alza la voce con parole di coraggio, dentro pensa soltanto: “Capitano, chiunque… ma non io.”
Oak Hill, 1995. L’Europa è sotto 9 a 7. Bernard Gallacher, capitano europeo, deve decidere. A un certo punto Seve Ballesteros, con la schiena dolorante e un drive ormai fuori controllo, si alza e grida: “Mettimi per ultimo!”. È il paradosso vivente: l’icona, il leader, il simbolo di un continente, ormai in difficoltà al punto da essere stato escluso dai foursome. Ma Seve vuole un’ultima battaglia decisiva, un ultimo duello da eroe. Gallacher, però, intuisce la mossa giusta: “No, Seve. Tu aprirai i giochi.”
Il sorteggio lo abbina a Tom Lehman, americano dall’aspetto mite ma dal gioco tagliente, nel pieno della carriera. Per Ballesteros, invece, il giudizio della stampa è spietato: “Il suo golf era un film dell’orrore”, scrisse Dan Jenkins. Ma chi conosceva davvero Seve sapeva che il suo talento non stava nella meccanica: bisognava liberarlo dalle catene della tecnica e lasciargli dipingere golf come un artista su tela.
Così Roddy Carr, il suo manager, va a cercare John Jacobs. Una storia di rancori li divideva: Jacobs, nel 1981, era stato tra i capitani che avevano avallato l’esclusione dello spagnolo dalla Ryder per questioni regolamentari legate a tornei esibizioni a pagamento in Europa. In realtà, Jacobs lo aveva sostenuto, ma il malinteso era rimasto. Quella mattina, all’alba, sul campo pratica, Jacobs si avvicina a Seve. Davanti a una piramide di palline, lo spagnolo lo guarda con diffidenza: “Che vuoi, Roddy?”. Jacobs non gli chiede di aggiustare il swing. Gli chiede colpi strani, improvvisati, inventati. “Gioca così”, gli dice. E Seve torna Seve.
Intanto Lehman riceve un avvertimento: “Non guardarlo negli occhi”. Sul tee della 1, Ballesteros lascia cadere apposta il guanto e incrocia lo sguardo dell’avversario. Fulmineo. Partita iniziata. Da quel momento si assiste a un’epopea. Drive storti di trenta metri, recuperi miracolosi, bogey e birdie generati dal nulla. Colpi che filtrano tra i rami e atterrano sul green, pitch che superano bunker impossibili e si fermano a un palmo, putt da sei metri imbucati per restare in vita. “Se fossi stato io a giocare contro di lui, avrei perso 10&8”, ammise lo stesso Lehman.
Ogni buca è un piccolo miracolo. Seve non centra un fairway, ma resta in partita. A Gallacher, che gli chiede perché sorrida, risponde: “Dovrei essere 9 down.” Ma non molla, e i compagni vedendolo combattere si caricano: “Facciamolo per Seve”, riecheggia sui fairway di Oak Hill.
Alla fine, Ballesteros perde 4&3. Ma la sua battaglia ha già cambiato l’inerzia della Ryder. L’Europa conquista cinque match consecutivi, e con il punto di Philip Walton contro Jay Haas la rimonta è compiuta: 14½ a 13½.
Una vittoria che resta scolpita nella leggenda. Quella fu l’ultima Ryder Cup di Seve.
Non ne giocò più, e nel 2011 se ne andò troppo presto, a soli 54 anni, stroncato da un tumore. Ma il suo spirito rimase per sempre: il Palmer europeo, colui che si caricò l’Europa sulle spalle, che abbatté il dominio americano, che scrisse un record di 12-9-1 a partire dal 1979. Eppure, in mezzo a tutte le sue imprese, il match più grande che Seve abbia mai giocato fu proprio quello che perse a Oak Hill.
Perché in quelle quindici buche, tra il caos e la magia, la Ryder Cup smise di essere una semplice sfida e diventò mito.
Ryder Cup: Seve, vincere perdendo