Nel 1971 Lee Trevino scrisse una pagina indelebile del golf, vincendo in soli 20 giorni U.S. Open, Canadian e Open Championship. Un’impresa che lo colloca tra i protagonisti di una delle stagioni più memorabili di sempre nella storia del nostro sport


Anche per i migliori golfisti, il raggiungimento della “zona di comfort” – ovvero lo stato mentale in cui qualsiasi gesto atletico sembra venir naturale – si presenta spesso in modo casuale e con la consapevolezza che non sempre “volere è potere”. 

Ma questo concetto sembrava non valere per Lee Trevino. Il suo stile di gioco naturale – sciolto, libero, veloce, gioioso, fiducioso e fluente – dava l’idea che lui fosse sempre sul punto di raggiungerla. “Non sapevo come definirlo ma quello era lo stato che cercavo”, ha detto il sempre vivace e ormai ottantacinquenne Trevino dal divano di casa sua a Dallas. “Visualizzavo la buca e la traiettoria e lasciavo che il mio corpo andasse di conseguenza. Nel 1971 ho finalmente raggiunto e mantenuto la giusta predisposizione mentale e consapevolezza delle mie capacità”.

I trionfi di Trevino nel 1971 non furono frutto del caso. Arrivarono dopo uno dei periodi più difficili della sua vita, quando la sua carriera faticava a decollare, nonostante un inizio promettente e fulmineo. 

Cresciuto in povertà da sua madre e da sua nonna, senza figura paterna e con una carriera scolastica conclusa prima del tempo (lasciò la scuola all’età di 13 anni), Trevino si trovò impreparato di fronte ai grandi cambiamenti che arrivarono con la vittoria nello U.S. Open del 1968. 

Nonostante il suo gioco eccellente e le sue vittorie sul tour nel 1968, 1969 e la doppietta del 1970, Trevino era inquieto. Si chiedeva se fosse davvero adatto a questo mondo. La solitudine della sua infanzia aveva lasciato il posto al cameratismo e al senso di appartenenza scoperto durante il suo tempo nei Marines, ma il passaggio al PGA Tour rievocò in lui vecchie insicurezze. Il successo sul campo divenne il suo modo per colmare quel vuoto, ma a metà del 1970 si ritrovò esausto, frustrato e intrappolato in un circolo vizioso all’insegna di feste e alcol. 

“La mia vita era cambiata troppo velocemente e stavo perdendo il controllo – ha ammesso -. Avevo dimenticato che cosa mi avesse portato fino a quel punto. Per questo motivo, decisi di tornare alle mie origini, e fare ciò che mi veniva meglio: giocare a golf. Quella scelta mi ha salvato.” Nel dicembre del 1970, l’allora 31enne Trevino trascorreva lunghe fredde giornate al El Paso, giornate che gli ricordavano il regime di allenamento adottato durante i suoi 20 anni a Dallas. Le mattine cominciavano con degli allenamenti presso il campo del Tenison Park per continuare sino a mezzanotte nel driving range illuminato e sul pitch-and-putt dell’Hardy Greenwood. Ogni giorno tirava più di mille palline, recuperando piano piano la disciplina persa. 

Sempre nel 1970 dovette ritirarsi dal Masters a causa di una discussione con Clifford Roberts, presidente di Augusta, riguardo ai biglietti omaggio per il torneo.

Jack Nicklaus, riconoscendo il suo valore, gli diede un personale consiglio: “Il tuo posto è ad Augusta. Spero che tu non scopra mai quanto sei bravo. Potresti vincere qualsiasi cosa”. Poco tempo dopo, Trevino vinse a Tallahassee, il suo primo successo in 13 mesi. La prima volta che vide il percorso di Merion per l’U.S. Open Trevino lo ricorda così: “Quel campo era perfetto per me. Il paradiso dei golfisti. Sapevo come affrontare ogni singola buca alla perfezione. I fairway erano stretti e battuti dal vento, ma sapevo che con un drive basso non avrei avuto problemi. L’avevo perfezionato all’Hardy Greenwood, scommettendo quarti di dollaro cercando di colpire un palo d’acciaio a 175 yard di distanza”. A Merion, mentre tutti erano intimoriti dal rough, dal tee tirava lo stesso il driver giocando all’attacco a differenza degli altri, più conservativi. 

Ma Trevino non era costante nel putt. L’Hardy Greenwood non aveva un putting green, e le superfici non perfettamente rasate del Tenison Park dove si allenava non gli permettevano di perfezionare quel colpo. Racconta che a Dallas gli dicevano: “Sai giocare bene, ma non riuscirai mai a puttare abbastanza bene da diventare un professionista”.

Con l’inizio della sua carriera da professionista, i green più veloci e morbidi lo spinsero ad sistemare gradualmente la tecnica.

“A Merion sembravo Arnold Palmer, con i gomiti stretti verso l’interno. Era il modo in cui riuscivo avvicinarmi meglio alla palla” ha spiegato. “Quella settimana riuscii ad acquisire un buon ritmo, individuando velocemente le linee senza aver fatto colpi di pratica. La buca sembrava enorme!”. Il momento di svolta di quel torneo del 1971 arrivò con un birdie da 36 metri che lo portò a chiudere il primo giro in 70, per poi ulteriormente migliorare il suo score totale con un altro birdie da 20 metri alla buca 16 durante la giornata di sabato. 

Quando lui e Nicklaus arrivarono testa a testa dopo 72 buche, Trevino divenne impaziente di affrontare l’uomo che riteneva essere il miglior giocatore di tutti i tempi in un playoff da 18 buche.

“Non ho mai e poi mai pensato di poter essere allo stesso livello di Jack, ma non sono mai stato intimorito da nessuno. Nicklaus ha tirato fuori il meglio di me. Giocare contro di lui è stata la prova per misurare davvero me stesso, qualcosa di cui avevo un reale bisogno in quel periodo. Era come se avessi già vinto”. 

Durante il playoff del lunedì, Trevino fece un bogey alla 1 ma giocò le successive 17 tre colpi sotto il par battendo Nicklaus di tre colpi. “Continuavo a giocare bene il driver, che mi ha permesso di effettuare  i due birdie decisivi sulle seconde nove. Jack, a livello mentale, è il giocatore più forte di tutti, ma in un setup da U.S. Open è difficile battere qualcuno che è sempre in fairway.”

La settimana successiva al Cleveland Open Invitational Trevino chiuse solo 34° ma tutti si congratularono con lui per il grande trionfo di Merion. “Ho dimostrato di essere al loro stesso livello. Finalmente, in quel momento sentii di far parte di qualcosa”. 

Si trasferì poi a Montreal dove vinse il Canadian Open battendo Art Wall con uno spettacolare birdie da sei metri alla prima buca di play-off. Al Royal Birkdale, per l’Open Championship di quell’anno, Trevino era entusiasta. Arrivato solo un giorno prima dell’inizio del major, si presentò con la sua energia travolgente, parlando e cantando con il pubblico, lasciandolo completamente ammaliato. 

“Non ero stanco, ero in uno stato di assoluta euforia” ha ricordato. “Mi sentivo come Jack su quel percorso. Birkdale aveva cinque buche par 5, e mi sentivo che potevo addirittura chiuderle con soli due colpi. In quel momento ho realizzato che tutto stava andando per il verso giusto. Ero diventato il golfista migliore che potessi essere”. 

Con un vantaggio di cinque colpi su Lu Liang-Huan e nove buche da giocare, Trevino rischiò di mandare tutto all’aria quando, con troppa fiducia, sbagliò il tee shot alla 17, chiudendo con un pesantissimo doppio bogey. Nonostante la battuta d’arresto, riuscì a terminare il giro con uno spettacolare birdie vincendo con un solo colpo di vantaggio. Quel trionfo diede inizio a incredibili festeggiamenti per 20 giorni che resteranno per sempre nella storia del golf. 

“Avevo un po’ di Tiger in me quando mostrai a tutti quello che ero diventato”, ricorda con un sorriso. “Mi dicevo: ‘Ok, chi è il prossimo?’ Mi sentivo come uno dei migliori giocatori di tutti i tempi”. 

Non ci furono altri major da vincere in quell’anno, visto che il PGA Championship a quei tempi si disputava addirittura a febbraio. Incurante delle fatica, Trevino mantenne la sua ferrea tabella di marcia, tornando immediatamente negli Stati Uniti per giocare il Western Open, che chiuse al 32° posto. Sfortunatamente, la settimana seguente a Westchester, durante il suo 15esimo torneo consecutivo dalla sua rinuncia al Masters, non riuscì a superare il taglio, affermando: “Sono davvero distrutto”. “Ho giocato troppo in quei mesi – ha ammesso nel corso della nostra intervista -. Pensavo di doverlo fare perché non sapevo per quanto tempo sarei riuscito a mantenere quel livello”. 

Sebbene abbia poi nuovamente disputato l’Open Championship e vinto il PGA Championship nel 1974, Trevino ha ammesso di “non essere più stato lo stesso dopo quel incredibile 1971”. Dopo essere stato colpito da un fulmine nel 1975, incidente che gli procurò seri danni alla schiena, riuscì comunque a conquistare il Vardon ancora una volta nel 1980 e un ultimo major – il suo sesto – il PGA Championship del 1984 al Shoal Creek Golf and Country Club.

“Vi dirò una cosa: sono arrivato al momento giusto. Ho giocato con i migliori, con Sarazen, Snead, Hogan, Nicklaus, persino con Tiger, e ho dato il meglio di me nel 71. Diavolo, fatemi pure fuori. Il golf non potrà mai essere meglio di quello che è stato per me in quel periodo”.