Keegan Bradley e il dilemma del secolo: capitano, giocatore o entrambe le cose?

Dopo oltre un anno di chiacchiere, confronti quotidiani e messaggi senza sosta, nel weekend del Tour Championship la chat di Keegan Bradley e dei suoi vice-capitani è improvvisamente diventata muta. Silenzio totale, come se anche loro sapessero che ormai la decisione finale spettava solo a lui.
“Abbiamo messo tutto in pausa per un paio di giorni,” ha spiegato Bradley. “Forse volevano lasciarmi in pace. Ma ci sentiremo presto per tirare le somme.”
La verità, però, è che Bradley era già solo. Perché da capitano della squadra americana di Ryder Cup le decisioni sono soltanto sue. E qui sta il paradosso: Bradley, capitano in carica, ha fatto abbastanza in campo da meritarsi una wild card, ma Bradley, giocatore in cerca di un posto, deve convincere se stesso a chiamare proprio il suo nome. Una situazione che, come ha detto Collin Morikawa, “è probabilmente una delle decisioni più difficili che un capitano abbia mai dovuto affrontare.”
E la pressione non ha fatto che aumentare dopo il Tour Championship, dove Bradley ha sfoderato un golf scintillante: 64-63 nel cuore del torneo, una settima posizione finale che ha chiuso la stagione con il sigillo di un’annata sulla cresta dell’onda.
“Ho vinto due volte da rookie, compreso un major, ma questa è stata la stagione che ho amato di più,” ha confessato, esausto ma sorridente, dopo l’ultimo birdie.
Capitano o giocatore? Il dubbio che divide
Sul suo posto in squadra ormai ci sono pochi dubbi: merita di esserci. Eppure, tra chi sussurra che sarebbe un errore clamoroso e Rory McIlroy che non ha usato mezze misure – “Non credo che tu possa farcela, i compiti da capitano sono troppi” – il dilemma resta. Ma lo stesso Rory, dall’altra parte della barricata, ha ammesso: “Keegan è sicuramente tra i migliori 12 americani. Ed è proprio questo che rende la situazione così intrigante.”
Bradley ha incassato, ha sorriso e risposto con una stoccata: “E come fa a saperlo? Lui ci è mai passato?”
Dietro le battute, c’è tutta la sofferenza di un uomo che vive la Ryder Cup come pochi altri. Nel 2023 il taglio bruciante, rimasto fuori dalla squadra che ha perso a Roma. Nel 2024, la nomina a capitano: un onore enorme, ma anche il segnale implicito che la PGA non lo considerava abbastanza forte da qualificarsi. Ironia della sorte, oggi sarebbe sicuro nel Team USA con qualsiasi altro capitano al timone.
“È la decisione più grande della mia vita,” ha dichiarato al Guardian.
L’arma segreta o il rischio più grande
Bradley sa che qualunque scelta farà, sarà discussa. Se rinuncerà a giocare, qualcuno lo accuserà di non aver avuto il coraggio. Se si auto-selezionerà, scatteranno i paragoni con i nomi che avrebbe potuto scegliere – Sam Burns, Cameron Young, Maverick McNealy – tutti in corsa e con risultati solidi.
Eppure, l’idea di un capitano-giocatore infuocato, capace di trascinare squadra e pubblico, è affascinante. Sarebbe un gesto da leader, da uomo capace di scommettere su sé stesso. Da leggenda.
Ma il rischio è evidente: alla Ryder Cup non esiste il grigio. Se gli Stati Uniti vinceranno in casa, Bradley sarà un eroe. Se lo faranno con lui in campo, entrerà nella storia. Ma se perderanno, con o senza il suo nome nello score, le critiche saranno feroci.
Una sola domanda
Alla fine tutto si riduce a una domanda semplice, quasi crudele nella sua chiarezza: Bradley crede davvero che la sua presenza in campo aumenti le chance di vittoria del Team USA?
Una risposta che nessuno può dargli, nemmeno i suoi vice-capitani con le loro chat parallele. La decisione pesa soltanto sulle sue spalle.
“Di solito chiamo tutti per chiedere consigli,” ha ammesso. “Questa volta non c’è nessuno da chiamare”.
Ed è qui che il cammino diventa solitario. Perché decidere è solo l’inizio: poi arriveranno la preparazione, la pressione, il primo tee, l’ultima buca. Bradley dovrà scegliere quanta responsabilità caricare sulle sue spalle.
E dopo, in qualunque veste scenda in campo, dovrà comunque trovare un modo per vincere.
I sei qualificati del Team USA
