Ci voleva proprio un altro scossone per agitare le acque già torbide del golf a stelle e strisce. Keegan Bradley è pronto a fare ciò che in Ryder Cup nessun altro ha fatto da oltre sessant’anni. Giocare e comandare. Allo stesso tempo.
Bradley è stato scelto come capitano a sorpresa, scavalcando nomi più quotati, più navigati, più “politicamente corretti” e già quella nomina aveva sollevato qualche sopracciglio.
Ma adesso, con la stagione clamorosa che lo ha proiettato verso una possibile qualificazione automatica nel Team USA a New York, l’idea che voglia “giocare e governare” rischia di trasformarsi in un pasticcio annunciato. Un pasticcio che ha trovato la complicità, sorprendentemente, proprio dell’altra parte dell’Oceano: l’Europa di Luke Donald, che ha accettato di modificare il regolamento per permettere questa doppia veste.
Generosità? Sportività? O pura strategia?
I sostenitori del “grande piano” parlano di una squadra coesa, di vice-capitani esperti pronti a sostenere Bradley se lui scendesse in campo. Dicono che Jim Furyk, Brandt Snedeker e gli altri sapranno coprire il ruolo tattico mentre Keegan solcherà i fairway di Bethpage.
Ma davvero possiamo credere che in un evento carico di tensione come la Ryder Cup, dove ogni match è uno psicodramma a sé, un giocatore possa contemporaneamente pensare a battere Rory McIlroy e a gestire, media, riunioni e giocatori e clima nello spogliatoio?
Il tutto, ovviamente, in nome di un “sogno americano” che suona più come un capriccio da PGA of America.
Perché c’è anche chi questa situazione l’ha letta con ironia: “Bradley in campo? Ottimo per l’Europa”.
Il sottinteso è chiaro: un capitano distratto è un vantaggio per gli avversari. Ma guai a dirlo pubblicamente. Guai a mettere in discussione la narrativa red-white-and-blue, quella del ragazzo che si fa strada a colpi di putt e sudore, che rifiuta le logiche di star system ma si prende tutto il palco quando serve.
La verità è che questa situazione è stata gestita male fin dall’inizio. Nessun piano chiaro, nessuna comunicazione netta. “Vedremo cosa succede” sembra il mantra di Bradley. E nel frattempo, la squadra USA rischia di ritrovarsi a Bethpage Black senza sapere chi comanda davvero. Se Keegan sarà un giocatore, allora deve comportarsi da giocatore. Se sarà capitano, allora che lo faccia a tempo pieno. Non si può avere tutto.
Ma in questo gioco dove conta più il brand che la bandiera, dove le telecamere valgono quanto le vittorie, forse è proprio questa ambiguità ad attrarre. Perché a Keegan Bradley oggi non si chiede solo di vincere: si chiede di salvare la narrativa di un team in crisi d’identità. E magari, se il piano fallirà, si potrà sempre dire che era “un esperimento”.
Peccato solo che la Ryder Cup non è mai stata, e non sarà mai, un laboratorio. È una battaglia a colpi di birdie. E chi scende in campo senza una catena di comando chiara, di solito perde.
