C’è qualcosa di profondamente filosofico nel The Open Championship, che domani tornerà per la 153ª volta, a sfidare i migliori golfisti del mondo, armati non solo di ferri e legni, ma di memoria, umiltà e resistenza. È il più antico dei major, il più sobrio, il più esigente. Quello che non cerca di stupire con la spettacolarità, ma ti affascina con la coerenza. È l’Open, non ‘un torneo’: è il torneo.

Il tempo al British Open è più che solo meteorologia

È storia. Non è solo questione di pioggia, rough piegato dal vento o sprazzi di sole tra le nuvole: è il peso dei decenni che si sente in ogni tee, è il silenzio che precede il colpo su buche giocate da Vardon, Hogan, Nicklaus e dove ogni giocatore spera un giorno di lasciare un’impronta.

In un’epoca in cui lo sport è sempre più dominato da tecnologia, algoritmi e business, l’Open Championship resiste come un anacronismo intenzionale. I links del regno Unito non si piegano alla moda, né alle richieste dello show. Non c’è musica sui tee, non ci sono magliette fluo e se vuoi vincere, devi saper giocare con il vento, non contro di lui.
Il filosofo inglese Michael Oakeshott sosteneva che la tradizione non è il culto delle ceneri, ma la custodia del fuoco.

L’Open custodisce il fuoco dello spirito originario del golf: il rispetto per la natura, l’incertezza radicale, la fatica di imparare col tempo.

Sono campi, quelli su cui si gioca, in cui nessuno controlla tutto e questo è il suo più grande insegnamento.

Il vento, che qui gioca spesso da protagonista, è più che una condizione meteorologica: è una lezione esistenziale. Non si vede, non si afferra, cambia direzione senza avvisare. Seneca direbbe che non possiamo comandarlo, ma possiamo regolare le vele. In questo senso, ogni golfista che affronta l’Open deve praticare una forma di stoicismo attivo: accettare ciò che non può cambiare e concentrarsi su ciò che può controllare: il proprio atteggiamento, la propria decisione, il proprio colpo.

Giocare (o guardare) l’Open significa partecipare a qualcosa di più grande del singolo evento.

Come diceva Hans-Georg Gadamer, comprendere significa entrare in un dialogo con la tradizione. E ogni colpo al Royal Portrush Golf Club oppure sull’Old Course, a Troon o Muirfield, è un dialogo con chi è venuto prima.

Il campione che vince la Claret Jug non è solo il più forte: è colui che ha saputo ascoltare il campo, comprendere il ritmo della storia e inserirsi in essa con rispetto e coraggio. In un mondo che ci spinge a essere sempre nuovi, sempre più veloci, l’Open ci chiede l’opposto: di rallentare, ascoltare, rispettare.

“Il nostro linguaggio può essere visto come una vecchia città: un dedalo di vicoli e piazzette, vecchie e nuove case, e case con aggiunte di epoche diverse.”
Afferma il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein nel suo testo Ricerche filosofiche. Wittgenstein ci invita a guardare al linguaggio non come a una struttura perfettamente ordinata, ma come a una città viva, cresciuta nel tempo. Non progettata da un architetto, ma costruita da mani diverse, in epoche diverse, secondo bisogni diversi. Una città in cui convivono strade strette e disordinate accanto a viali recenti, chiese medievali tra palazzi moderni, ponti che uniscono epoche senza cancellarne nessuna.

E così è l’Open Championship.

Un campo come St Andrews, sul quale si giocherà la 155ª edizione dell’Open, non è una costruzione razionale, ma una stratificazione di gesti, stili, racconti e leggende. Non ti parla con la chiarezza geometrica dei nuovi campi parkland. Ti sussurra. E per capirlo, non basta misurare le distanze. Serve entrare nel suo linguaggio: un linguaggio fatto di vento, rimbalzi imprevedibili, silenzi, rispetto.

Come accade in una città antica, non puoi dominarlo, ma solo abitarlo, lentamente. Camminando. Osservando. Perdendoti e ritrovandoti. Le prime volte ti sembrerà confuso, incoerente, a tratti perfino ostile. Ma col tempo, proprio come con una lingua straniera,inizierai a cogliere i segni, le pause, le sfumature.

Ogni buca è una parola antica. Ogni green, una frase sospesa. Non è un caso se molti dei grandi campioni hanno avuto bisogno di più edizioni dell’Open per vincerlo. Perché qui non si impone il proprio gioco, come si fa altrove. Qui si impara il gioco del campo e lo si rispetta.

Questo è forse il più grande insegnamento dell’Open, ed è un insegnamento filosofico: non tutto ciò che è difficile è nemico.

A volte, è solo più profondo. Come le relazioni vere, come le lingue straniere, come le città che non finiscono mai di svelarsi. E come la vita stessa, il campo dell’Open non chiede di essere dominato, ma capito. E per capirlo, bisogna ascoltare. E per ascoltare, bisogna rallentare.

Quando guarderai l’Open quest’anno, non chiederti solo chi vincerà. Chiediti cosa ti sta insegnando. Chiediti se sei pronto, anche tu, ad affrontare il vento – non solo nel golf.

Se volete approfondire i temi trattati potete scrivermi a: stefano@stefanoscolari.it