La stagione del DP World Tour volge al termine con i playoff in programma negli Emirati Arabi Uniti in novembre. Le gare conclusive non sono solo la chiusura di un capitolo sportivo, ma un momento di verità esistenziale. Ogni giocatore – dal professionista che gira il mondo all’amateur che chiude la stagione del circolo – si ritrova davanti allo stesso bivio: come è andata davvero? È questo l’istante in cui il punteggio smette di essere un numero e diventa domanda. Il lavoro di mesi è stato convalidato o vanificato? Abbiamo raggiunto ciò che speravamo? E cosa accade nell’attimo silenzioso che precede la nuova ripartenza?

Questo passaggio tra l’achievement, il risultato, e il futuro che ci chiama è il terreno privilegiato per la filosofia del tempo e dell’azione.

Ogni fine stagione, in realtà ogni fine, impone una pausa ed è un momento speciale. Aristotele, scrive: “La realtà è nella sua fine”. Il significato di un’azione si comprende davvero solo una volta conclusa. Il risultato non è soltanto un piazzamento in classifica. È la traccia che l’esperienza lascia in noi: la forma che ha dato al nostro carattere. A fine stagione, la domanda vera non è: come ho giocato? Ma: dove volevo andare? Il filosofo Seneca in Lettere a Lucilio ci ricorda che “Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare.” Se l’obiettivo era chiaro, allora la stagione ha comunque fatto il suo lavoro, quale che sia stato il risultato di classifica.

Nella vita del golfista c’è un momento che non appartiene più al passato, ma non è ancora futuro. È quel breve attimo che segue l’ultimo putt.

Nulla può più cambiare e nulla è ancora cominciato. È una soglia sottile. Tutto si ferma. Si avverte un senso di leggerezza e smarrimento insieme. Paradossalmente, anche la vittoria porta con sé un senso di vuoto. Ce lo ricorda un pensiero di Giacomo Leopardi, così lucido nel descrivere l’animo umano, che si può riassumere così: “Il piacere, una volta conseguito, lascia il vuoto nell’anima.” La gioia per il trionfo è intensa ma effimera: dura pochi attimi e subito si ritrae, lasciando spazio a una strana quiete. È come se l’obiettivo, una volta raggiunto, non avesse più nulla da dire. Il golfista si accorge che l’ascesa è terminata, che la vetta è reale ma silenziosa.

Nel film Momenti di gloria Lord Andrew Lindsay ferma gli amici desiderosi di festeggiare con Harold Abrahams subito dopo la sua vittoria nei 100 metri con questa frase: “È in uno stato di grazia. È l’unico momento in cui sarà mai solo. Lasciatelo stare.” È un momento di solitudine metafisica. L’atleta ha raggiunto l’obiettivo per cui ha vissuto, l’ha conquistato, e ora si trova di fronte al vuoto dell’obiettivo raggiunto, un’emozione che nessuno, nemmeno gli amici, può condividere o riempire. È la solitudine che segue il culmine dell’esistenza.

Il filosofo zen Takuan Sōhō, nel celebre La mente immobile, suggerisce che la libertà emerge proprio quando la mente si lascia svuotare dalle intenzioni: “Quando la mente è libera, non sta né in uno stato né nell’altro; non si ferma su nulla.” È esattamente ciò che accade in quell’attimo sospeso: la mente non è più concentrata sul colpo né ancora rivolta al futuro. È libera – o almeno potenzialmente tale. Può guardare dentro e fuori senza giudizio. In questa soglia, anche l’identità del giocatore si fa incerta. Finché si è in gara, si è “colui che lotta per…” Ma quando il torneo finisce, chi siamo? Forse è per questo che tanti atleti, anche dopo grandi vittorie, raccontano una strana malinconia. Non perché manchi loro la competizione, ma perché si avverte il distacco da una forma di sé che era piena, orientata, necessaria.

A fine stagione non possiamo più modificare i colpi e le scelte fatte, ma possiamo dare loro un significato nuovo.

Possiamo rileggere e ‘riscrivere’ la nostra storia. Il filosofo Henri Bergson ricorda che “Il passato non è ciò che è stato, ma ciò che ne abbiamo fatto.” Non possiamo cambiare ciò che è stato ma possiamo trasformare la memoria: la sconfitta può diventare insegnamento, la vittoria può diventare responsabilità per fare ancora meglio.

Albert Camus nei suoi Taccuini del 1951 ci ricorda una cosa fondamentale: “La fine di un atto non è la fine della vita.” Quell’attimo dopo l’ultimo putt non va evitato o riempito subito di nuove aspettative: è un passaggio di consegne tra ciò che siamo stati e ciò che saremo. Non è solo la stagione a essere finita. In quello spazio, finisce una versione di noi. E inizia – lentamente, silenziosamente – la prossima. Spesso confondiamo il traguardo con la fine del percorso. In realtà, il traguardo è sempre un passaggio.

Che cosa fare, dunque, in questo attimo sospeso?

Dobbiamo prenderci cura del tempo: non rincorrere subito la prossima agenda, non giudicare frettolosamente ciò che è stato. Non tutto va spiegato. Alcune cose vanno lasciate decantare. Il grande filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein lo suggerisce con una frase celebre: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.” (Tractatus, 7). È il momento di restare ad ascoltare con sincerità noi stessi: chi siamo diventati attraverso la stagione? Ciò che pensavamo possibile a inizio stagione, lo è ancora? Vogliamo le stesse cose?

Il golf ci insegna che il cuore dell’esperienza non sta nel risultato, ma nello spazio tra ciò che è stato e ciò che sarà.

Tra l’ultimo putt e il primo tee della stagione successiva. Nel punto in cui nulla è certo, e tutto è possibile. È quel momento in cui guardiamo indietro per capire e avanti per sperare. È lì che si diventa giocatori migliori. Ed esseri umani più profondi. Perché si cresce soprattutto nell’attesa tra un colpo e l’altro. Nel tempo sospeso dove, senza rumore, inizia ciò che saremo.

Restiamo un istante in silenzio sull’ultimo green.
Non abbiamo vinto o perso una stagione: abbiamo guadagnato il tempo per trasformare l’esperienza in saggezza. La stagione dei tornei ricomincerà, e con essa le ambizioni, le ansie e i nuovi obiettivi. Ma per un momento, fermiamoci. Lasciamo che la mente immobile ci riveli chi siamo al di là della classifica.
Perché la vera grandezza del golf sta nell’umiltà di riconoscere che l’unico percorso veramente infinito è quello interiore, che riparte sempre, silenziosamente, dall’ultimo green.