Il caddie filosofo: l’Open d’Italia e il silenzio dopo l’applauso

Sto scrivendo queste note all’Argentario Golf Club dove si è da poco concluso l’82° Open d’Italia. Cala il sipario e come sempre accade ciò che resta non sono solo i punteggi o le statistiche, gli applausi al vincitore e a tutti i partecipanti. Resta un silenzio speciale, quello che si sente nei fairway svuotati, nelle tribune smontate, nella club house tornata quieta. È un silenzio che parla, come certe frasi non dette ma comprese.
In quel silenzio, si deposita il senso più profondo del gioco: non la gloria, ma la presenza. Non la vittoria, ma la misura del proprio stare in campo.
L’Open d’Italia non è solo un torneo, è un momento di verità per ogni giocatore italiano. Davanti al pubblico di casa, davanti a se stessi. C’è chi arriva per vincere, chi per fare esperienza, chi per confermarsi. E ognuno, anche chi non solleva il trofeo, se ne va con qualcosa in più: un colpo riuscito nel momento giusto, una paura superata, una lezione imparata. “Io non perdo mai: o vinco o imparo” diceva Nelson Mandela.
Il filosofo danese Søren Kierkegaard annotava nel suo diario: “La vita va vissuta in avanti, ma può essere compresa solo all’indietro.” C’è in questa frase una verità profonda e scomoda. Viviamo proiettati verso il futuro, costantemente chiamati a scegliere, agire, rischiare. Ma la comprensione, quella vera, quella che ci fa veramente capire la trama del film del quale siamo protagonisti – la nostra vita – arriva sempre dopo. A posteriori. Quando ci fermiamo, ci voltiamo, e ci chiediamo: perché ho fatto quella scelta? cosa mi ha guidato? cosa ho imparato davvero?
E il golf, più di qualsiasi altro sport, sembra costruito proprio su questa logica esistenziale
Durante la gara, sei immerso nel presente: devi decidere il bastone, valutare il vento, sentire il corpo. L’attenzione è tutta sul colpo che sta per venire. Ma la comprensione di ciò che stai facendo arriva solo dopo. Solo quando rientri in club house e ripensi alla tua partita e ad ogni singolo colpo di essa.
Nel golf, il tempo non è lineare. È fatto di ritorni. Di ripensamenti. Di piccole illuminazioni che emergono ore dopo, a volte giorni dopo. Come nella vita, le decisioni che sembravano ovvie si rivelano avventate, e quelle più timide, a posteriori, sembrano cariche di saggezza. Il campo, è un luogo dove si agisce nel presente, ma si cresce nel passato. Ogni buca giocata è come una pagina scritta di getto che solo rileggendola ti appare piena di significati nascosti. E questo richiede una virtù rara: la capacità di imparare retrospettivamente, senza giudicarsi troppo, senza mitizzare né colpevolizzare.
Kierkegaard sapeva che l’essere umano è condannato a vivere senza garanzie, a decidere nel buio. Eppure, è proprio questa fragilità che ci rende veramente umani e, forse, veramente golfisti.
Non impariamo dal colpo che stiamo per fare, ma solo da modo in cui lo ricordiamo.
E il significato che gli attribuisci dopo. E allora, anche nell’errore, anche nel colpo sbagliato, anche nel putt tremante, c’è una possibilità: quella di capirsi meglio.
Rispetto ad altri grandi eventi internazionali, l’Open d’Italia ha qualcosa di più intimo, riflessivo, ha un carattere diverso. Meno roboante, più raccolto. Meno progettato per impressionare, più pensato per mettere alla prova con intelligenza e misura.
È un torneo che sembra parlare con voce bassa, ma profonda. C’è in esso qualcosa di artigianale: come un mobile costruito a mano, come un vino affinato lentamente, come un gesto antico che si tramanda senza clamore. È un torneo che si gioca anche con la memoria, la sensibilità, la capacità di leggere il contesto. I campi italiani come l’Argentario, il Marco Simone o l’Adriatic Cervia, non chiedono solo potenza, ma comprensione. Non dominano il giocatore con la distanza, ma lo sfidano con scelte sottili, con curve che ingannano, con rough che sembrano messi lì a ricordare che la fretta non è una virtù. E proprio qui risuona Aristotele, il filosofo della phronesis, la saggezza pratica, e dell’etica del giusto mezzo: “La virtù è nel mezzo tra due eccessi.” Nel golf italiano, non si vince esagerando. Si vince capendo e adattandosi.
Ogni torneo importante, al di là dello score finale, non si gioca mai solo per se stessi: si gioca per chi ti ha insegnato a impugnare un bastone, per chi ti guarda da lontano sperando che quel putt entri, per la bambina che ha appena iniziato e già sogna di diventare una professionista.
L’Open d’Italia è, in questo senso, molto più di un evento agonistico. È un atto comunitario. Un rito collettivo che si rinnova ogni anno, e che dice a chiunque lo segua – da bordo campo o da uno schermo – qualcosa di semplice e potente: “Vieni a scoprire che il golf è più di uno sport. È un cammino.” Un cammino che richiede pazienza, concentrazione, autocontrollo, rispetto. E che educa ad una cosa rara oggi: l’attenzione profonda. Attenzione a sé stessi, al gesto, agli altri, alla natura, al tempo.
In questo senso, il golf non è solo tecnica o performance. È una scuola di carattere.
Come nella paideia greca, non si tratta solo di allenare il corpo, ma di formare l’essere umano nella sua interezza. Lo si fa con le regole, certo. Ma anche e soprattutto con i gesti silenziosi: quando non si bara, quando si aspetta il proprio turno, quando si accetta una penalità senza protestare. L’Open d’Italia — anche se riservato ai migliori professionisti — parla a tutti. È una vetrina, sì. Ma anche una finestra aperta su un modo diverso di vivere lo sport. Non come intrattenimento adrenalinico, ma come disciplina della mente.
Ogni anno, l’Open d’Italia rinnova questo invito silenzioso. A chi non ha mai giocato: “Vieni a provare.” A chi ha lasciato il golf da tempo: “Torna. Il campo è sempre qui.” A chi guarda da casa: “Non è solo spettacolo. È anche tuo.” Invita a far parte della comunità del golf, una comunità silenziosa nella quale ognuno cresce buca dopo buca, anno dopo anno, anche grazie a tornei come questo.
Se volete approfondire i temi trattati potete scrivermi a: stefano@stefanoscolari.it
