“Il golf è una bella passeggiata rovinata”. Non c’è golfista, dal professionista al neofita, che non abbia sentito risuonare nella propria mente l’eco amara di questa celebre massima di Mark Twain. È il lamento esistenziale del giocatore che, dopo un doppio bogey inspiegabile o un putt beffardo, sente l’impulso irrefrenabile di gettare la sacca nel più vicino ostacolo d’acqua e smettere per sempre. In questo momento di profonda disperazione sportiva, la domanda si fa filosofica: perché continuiamo a perseguire un’attività che, per sua stessa natura, sembra condannarci a una frustrazione quasi sistematica?
Cosa significa felicità in un contesto così intrinsecamente legato al fallimento?
Per iniziare a rispondere, dobbiamo immergerci nella visione pessimistica del filosofo di Francoforte Arthur Schopenhauer. Egli descriveva l’esistenza umana come un pendolo che oscilla incessantemente tra due stati: la noia e il dolore. Traslando questa dialettica sul campo da golf, la corrispondenza è quasi perfetta.
La noia è l’interminabile attesa che il percorso si liberi prima del tee shot; l’estenuante cammino sul fairway dopo un drive perfetto che, proprio perché perfetto, non ci dà nulla da rielaborare; il campo che conosciamo alla perfezione e che giocheremmo anche bendati.
Il dolore, invece, è l’atto della mancanza: il colpo maldestro, lo score che tradisce le aspettative, il desiderio di miglioramento che si scontra con la dura realtà.
La felicità, per Schopenhauer, non è un’entità positiva da raggiungere, ma solo la cessazione momentanea del desiderio, il breve, quasi mistico, sollievo che si prova dopo aver imbucato un par difficile o aver evitato il peggio. Non è gioia, è solo quiete; non è beatitudine, è momentaneo nirvana.
Questa infelicità strutturale del golf affonda le radici nel concetto di volontà. Per Schopenhauer, la volontà è la forza cieca, irrazionale e universale che spinge ogni cosa a esistere e desiderare. Sul campo da golf, la volontà è quel desiderio insaziabile di colpire la palla meglio, di abbassare lo score, di dominare il gioco. Ed è proprio la volontà la fonte della nostra sofferenza, perché non può mai essere definitivamente appagata. Anche il professionista che vince un Major desidera vincerne un altro; il giocatore con handicap 5 desidera raggiungere 3. Per non provare più dolore nel golf dovremmo sospendere questa volontà, l’unica via per un’effimera pace sarebbe rinunciare al desiderio, fino all’estremo sacrifico: smettere di giocare.
Ma non possiamo vivere solo di negazione. Il vero caddie filosofo indirizzerebbe il suo giocatore verso una felicità attiva, non solo passiva.
Qui subentra lo stoicismo, la cui prima regola è distinguere tra ciò che possiamo controllare e ciò che non possiamo. Il risultato (il vento, il lie beffardo) è esterno alla nostra sfera di influenza e, pertanto, deve essere accettato con apatheia, con distacco. Ciò che possiamo controllare è la qualità dei nostri pensieri, la nostra routine, l’impegno in campo pratica e il nostro atteggiamento morale. Marco Aurelio, nelle sue Meditazioni, ci offre la bussola: “La felicità della tua vita dipende dalla qualità dei tuoi pensieri: di conseguenza, sii consapevole dei pensieri che circolano nella tua mente e presta attenzione a non aggrapparti a pensieri in discordia con la virtù e la ragionevolezza.” Nel golf, questo significa che il putt mancato alla 9 non deve inquinare il pensiero che precede il drive alla 10. La nostra mente deve rimanere sotto il nostro dominio in ogni frangente.
Contrastando il pessimismo di Schopenhauer, possiamo riscoprire la felicità attiva attraverso Aristotele e il concetto di Eudaimonia, spesso tradotto con ‘vivere bene’ o ‘fioritura umana’. L’Eudaimonia non è un piacere momentaneo, ma il risultato di una vita condotta secondo virtù (arête). Il golf, come ogni attività complessa, è un percorso di ricerca dell’arête.
La felicità non è il birdie, ma la virtuosità dell’esecuzione.
La vera gioia è il contatto perfetto, la sensazione fisica e mentale di aver realizzato una performance ottimale, indipendentemente dal fatto che la palla sia finita in buca. “La felicità è un’attività dell’anima secondo la virtù perfetta” afferma Aristotele nell’Etica Nicomachea.
Quando ci sentiamo infelici e vogliamo smettere, in realtà stiamo negando l’eccellenza che siamo in grado di perseguire. La frustrazione è la misura della nostra aspirazione.
Per il giocatore sull’orlo di mollare tutto, la crisi diventa esistenziale. Il filosofo francese Jean-Paul Sartre ci ricorda che noi esseri umani: siamo condannati a essere liberi. Questo significa che ogni nostro colpo non è determinato solo dalla nostra tecnica: è una scelta radicale tra le diverse opzioni di bastone, di traiettoria, di area di atterraggio. Ogni colpo è un atto di libertà, una decisione, un progetto per il futuro: prendo un ferro 7 per eseguire un punch shot inteso a passare sotto gli alberi e ad atterrare davanti al green. Certo ogni scelta porta con sé l’inquietudine di aver deciso bene, ma questo è il prezzo da pagare per essere esseri umani vivi. Scrive Sartre in L’essere e il nulla: “L’uomo è condannato ad essere libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa.”
L’infelicità subentra quando si nega questa libertà, quando si attribuisce il fallimento al vento, al destino, al bastone, piuttosto che assumersi la responsabilità totale della propria azione e della propria scelta di giocare.
Il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche afferma che la ricetta per l’essere umano è l’Amor Fati, l’amore per il proprio destino: Il dolore per la flappa, la frustrazione delle ore passate in campo pratica non sono difetti del gioco, ma le condizioni necessarie per la sua sublime grandezza.
“La mia formula per la grandezza nell’uomo è Amor fati: […] Non solo sopportare il necessario, ma amarlo.” Scrive in Ecce Homo. La felicità nel golf è trovare il coraggio di amare non solo il birdie scintillante, ma anche il doppio bogey che ci ha costretto a riflettere. È la ‘volontà di potenza’ che si manifesta nel desiderio di superare la propria attuale mediocrità, usando la frustrazione come leva. Quella che non ci uccide (metaforicamente, non ci fa smettere di giocare) ci rende più forti.
Per ritrovare la felicità si potrebbe operare una sorta di terapia filosofica che agisce su tre livelli:
- Spostamento del Telos (Fine): Smettere di identificare la felicità con il risultato finale (lo score). Il telosdeve diventare l’esecuzione virtuosa di ogni singolo colpo. La felicità è il flow dello swing, non la palla in buca.
- L’Accettazione stoica del Caso: Distinguere l’abilità dalla fortuna. Se l’esecuzione è stata virtuosa(controllata), il risultato casuale deve essere accettato con serenità.
- L’Affermazione nietzscheana: Riconoscere che l’insoddisfazione è il motore del miglioramento. Senza la delusione per il colpo mancato, non avremmo l’energia, il carburante, per l’allenamento.
In conclusione, se un giorno volessimo smettere di giocare, dovremmo chiederci se stiamo davvero scappando dal golf o dalla nostra stessa volontà che non riusciamo a controllare. La vera felicità sul campo non è mai raggiunta, ma risiede nella tensione costante tra il nostro desiderio e la nostra capacità di agire con virtù in ogni, singolo, irripetibile colpo.
