Il grande filosofo statunitense John Rawls, uno dei principali filosofi morali del XX secolo, scrisse nel suo libro Una teoria della giustizia: “La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali, come la verità lo è dei sistemi di pensiero.”
Con quella frase, vuole dire una cosa molto semplice ma profonda: così come un’affermazione non ha valore se non è vera, una società non ha valore se non è giusta. Quando pensiamo o ragioniamo, la verità è ciò che dà valore alle nostre idee. Se un pensiero è falso o ingannevole, non vale. Allo stesso modo, per Rawls, una società (con le sue leggi, istituzioni, regole) deve avere come prima qualità la giustizia. Se un’istituzione è efficiente ma ingiusta, è come un ragionamento ben costruito ma falso: non va bene! La giustizia è la virtù più importante quando si tratta di organizzare la vita comune.
Le regole del golf, che organizzano la vita comune di noi golfisti, sono improntate alla ricerca della giustizia come vorrebbe Rawls?
Queste riflessioni mi sono venute alla mente qualche giorno fa ripensando alla vicenda che ha visto protagonista il giocatore americano Cole Hammer.
Hammer, giovane talento americano, è stato squalificato a fine giugno dal torneo del Memorial Health Championship per aver violato una delle regole più stringenti: la 10.2a.
Tale regola proibisce ai giocatori di dare o chiedere consigli a chiunque altro che non sia il proprio caddie. Hammer ha raccontato che, mentre tornava alla sacca dopo il suo tee shot alla buca 17, il caddie di uno dei giocatori della medesima partita gli ha mostrato quattro dita, come a chiedere “hai usato il ferro 4?”. Hammer ha detto che, d’istinto, ha risposto affermativamente facendo il segno 4 con la mano. “È stata una cosa dettata dalla foga del momento, e non ci ho pensato molto fino a dopo il giro”, ha dichiarato Hammer.
Ma terminato il giro e durante la serata il pensiero di quanto accaduto ha logorato il giocatore che ha così deciso di riferirlo ai giudici autodenunciandosi. Il risultato è stato che sia lui che il suo avversario, il cui caddie aveva fatto il segno sulla scelta del bastone, sono stati squalificati.
Non voglio discutere qui sulla correttezza o meno della decisione dei giudici, ma di un principio del golf che lo stesso Hammer ha perfettamente espresso: “ho pensato che fare la cosa giusta e proteggere il gioco sarebbe stato meglio per me a lungo termine.”
“Proteggere il gioco”, cioè proteggere quel principio cardine del golf per cui non serve un arbitro: il primo giudice è il giocatore.
Questo è uno sport che si fonda su una scommessa filosofica altissima: la fiducia radicale nell’integrità di ciascun individuo.
Hammer ha riferito tutto ai giudici non perché glielo ha imposto qualcuno, ma perché sa che la regola non è lì per punire: è lì per proteggere. Quando nel 1744, ad Edimburgo, la Company of Gentleman Golfers of Leith scrisse in occasione di una competizione le prime regole del golf, ne scrisse solo 13. Tredici.
Oggi? Tra regolamento ufficiale, decisioni interpretative e linee guida, si arriva a oltre 500 pagine. Il solo testo delle regole è composto da 240 pagine.
Ci sono regole su: dove puoi droppare, come puoi marcare la palla, se puoi o meno asciugare la zona di impatto, cosa fare se trovi un lombrico sulla linea del putt… Ridicolo?
No. Ogni regola nasce da un principio: garantire che il gioco sia equo, coerente e responsabile in ogni situazione.
Il filosofo inglese del XVII secolo John Locke diceva che nello stato di natura ogni uomo è il “giudice supremo del proprio comportamento morale” perché la legge morale è dentro di noi, non fuori. Il golf prende questa idea molto sul serio. Forse più di qualunque altro sport: il golf è lo stato di natura dello sport. Non ti osserva nessuno, eppure devi rispettare la regola. È l’applicazione pratica del principio: più libertà, più responsabilità.
Ma servono davvero tutte queste regole nel golf? Sì, se pensiamo da quali principi sono ispirate e quali diritti vogliono garantire.
Primo principio. Autonomia del giocatore, dal quale deriva il dovere di giudicarsi da soli. Ma anche il diritto di poter giocare le nostre partite, anche quelle ufficiali che migliorano il nostro handicap, senza bisogno di avere una quantità enorme di arbitri… un numero tale che dimezzerebbe le competizioni di circolo, o anche peggio.
Secondo principio. Uniformità e giustizia. In un link scozzese si combatte il vento. In un campo dell’Arizona, il calore. In Corea, l’umidità. Eppure, si gioca in tutte queste condizioni, e altre ancora.
Ci sono così tante regole perché vanno previste le situazioni che possiamo incontrare in ogni angolo del pianeta. Questa è giustizia procedurale, come la definisce John Rawls: “La giustizia è imparzialità. È stabilire regole che valgano per chiunque, ovunque.” Devo avere regole per tutte le possibili situazioni che potrei incontrare, anche se non le incontrerò realmente mai. Questo garantisce il mio diritto di giocare ovunque voglia, e possa, e contro chiunque.
Terzo principio: il rispetto degli altri e del campo. In altre parole: lo spirito del gioco.
“Tutti i giocatori sono tenuti a giocare nello spirito del gioco con: l’agire con integrità; il mostrare considerazione verso gli altri; il prendersi cura del campo”, regola 1.2a.
Il golf è più che tecnica e un insieme di norme: è una visione etica. Etica che ci viene insegnata fin dall’inizio assieme ai primi rudimenti dello swing. Come scriveva la filosofa Simone Weil: “L’attenzione è la forma più rara e più pura di generosità.” Nel golf, prestare attenzione all’altro – non distrarlo, non rallentarlo, non calpestare la sua linea di putt – è un tratto non secondario del gioco. Questo serve anche a garantire il mio diritto di giocare sempre al meglio delle mie possibilità: su un campo nelle migliori condizioni possibili e senza interferenze dei miei avversari che tentino di distrarmi, innervosirmi o mettere in soggezione.
Quindi no, non ci sono troppe regole nel golf. Ce ne sono abbastanza per garantire autonomia e libertà, uniformità e giustizia, rispetto del gioco e dei giocatori.
Il filosofo francese Blaise Pascal diceva: “La vera libertà è sottomettersi volontariamente alla legge che si è scelta.” Proprio come ha fatto, e detto, Cole Hammer: “Credo di essere in uno stato mentale migliore dopo essermi autodenunciato.” Il caddie filosofo non può che applaudire gesti così. Perché sono quelli che ci ricordano perché amiamo questo gioco: perché qui, più che altrove, la giustizia non è una teoria. È una scelta.
