Fra poco sarà tempo di Ryder Cup – la gara a squadre per eccellenza – dove, oltre ai consueti matchplay individuali vi sono anche incontri a coppia, in due modalità: fourball e foursome. Come noto entrambe prevedono due compagni, ma con una differenza sostanziale: nel fourball ogni giocatore gioca la propria palla e si considera il miglior punteggio tra i due. Nel foursome, invece, si gioca una sola palla per coppia, con i giocatori che si alternano nei colpi. Una cosa che mi ha molto colpito nell’edizione del 2023 della Ryder, giocata in Italia, è che nei primi due giorni il team Europa ha vinto 7 match foursome su 8 giocati, mentre nel fourball il team USA ne ha vinti 3, 1 gli europei e tre sono finiti in pareggio. Come mai, mi sono chiesto, una tale differenza di risultati? Eppure, i giocatori erano sostanzialmente gli stessi. Certo, conta molto la strategia messa in campo dai due capitani, ma non ci sarà anche una profonda ragione filosofica?

Tra foursome e fourball la differenza non è solo tecnica. È esistenziale. Perché cambia la percezione della responsabilità.

Nel fourball ognuno è, in fondo, ancora padrone del proprio destino. Si può essere solidali con il proprio compagno, lo si può incoraggiare e sostenere, ma si resta indipendenti. Ognuno gioca il proprio gioco ed è personalmente responsabile di ciascun colpo. Come avviene normalmente nei tornei giocati di solito. Nel foursome, invece, ogni colpo diventa un colpo nostro. Se sbaglio un approccio, sei tu a dover puttare da una posizione scomoda. Così come se tu metti la palla in acqua, tocca a me rimediare. Se tu sbagli non è solo un problema tuo, diventa a tutti gli effetti anche un problema mio, e viceversa. È un’esperienza rara, quasi sovversiva per chi è cresciuto nella logica dell’individualismo. Possibile che questa diversa percezione della responsabilità possa pesare su campioni abituati a resistere ad ogni pressione psicologica?

La filosofia morale ha provato, nei secoli, a chiarire cosa significhi essere responsabili.

H.L.A. Hart, giurista e filosofo del diritto, nel suo libro Responsabilità e pena del 1968 sostiene che  ‘responsabilità’ implica almeno tre elementi: 1) libertà di agire, 2) previsione delle conseguenze, 3) attribuzione del merito o della colpa. In altre parole, sei responsabile quando: 1) potevi fare diversamente, 2) sapevi o potevi prevedere cosa sarebbe successo e  3) ciò che è accaduto è dipeso da te.

Ma cosa succede quando si gioca a colpi alterni? Nel foursome, la responsabilità si fa più opaca: agisci tu, ma il peso cade anche sull’altro. È come se ci fosse un’azione condivisa, una co-intenzionalità, per usare un termine caro al filosofo tedesco Husserl. Entriamo, insomma, in una forma di responsabilità intersoggettiva, dove il gesto del singolo si intreccia con l’identità del gruppo. L’altro è parte della mia identità. Non è un compagno accessorio: è la continuazione del mio gesto.

Nel golf individuale, la responsabilità diventa strategia di gioco: ho sbagliato, mi assumo l’errore, lo correggo. Nel foursome, però, emerge una dimensione più etica.

Non gioco solo per me, ma anche per e con l’altro. Ogni scelta ha un impatto doppio: tecnico e relazionale. Ecco perché i migliori giocatori in questa modalità non sono solo i più solidi, ma anche i più affidabili. I più ‘presenti’. I più maturi: quelli che riescono ad assumersi in pieno la responsabilità, senza scaricare, senza rimproverare, senza nascondersi.

Come dice Hans Jonas, la responsabilità è “la risposta a una chiamata, a qualcosa che dipende da noi per la sua salvezza o la sua rovina” (Il principio responsabilità, 1979). E questa ‘chiamata’ grava sulle tue spalle quando ti appresti a colpire la palla, che il tuo compagno ha lasciato in una posizione difficile, per salvare il par.

Quanti giocatori hanno una strategia mentale per fare fronte a questo? Nel golf individuale, il lavoro mentale è tutto: serve a chiudere con decisione il capitolo dell’errore, a ‘ripartire’ con lucidità sul colpo successivo.

I buoni giocatori imparano a riformulare l’errore come esperienza, a spostare il focus sul presente, a non portare con sé la zavorra del colpo sbagliato. Ed è un approccio prezioso, spesso risolutivo: “Non sei il tuo ultimo colpo”, ripetono. E così il giocatore ritrova fiducia, equilibrio, concentrazione. Ma cosa succede quando l’errore non è il tuo?

Nel foursome, la logica si complica. L’errore che ti pesa addosso paradossalmente non è tuo ma è tuo. Tuo da affrontare, tuo da riparare, tuo da non giudicare. È lì che il lavoro mentale tradizionale – orientato alla centratura individuale, al recupero del proprio focus – rischia di non bastare. Anzi, può fallire. Perché se ti concentri solo su te stesso, rischi di fare una delle due cose che compromettono la coppia: scaricare l’errore (“non è colpa mia, ha sbagliato lui”), oppure farlo tuo in modo tossico (“ora devo salvare tutto io, devo rimediare a ogni costo”). In entrambi i casi, la responsabilità viene fraintesa. O respinta, o caricata eccessivamente.

È qui che dovrebbe entrare in gioco un lavoro più profondo, filosofico. Non più la gestione dell’emozione, ma la comprensione del significato della responsabilità che ci si assume in quel momento.

Non più solo il controllo del pensiero, ma la riflessione sul tipo di relazione che si vuole costruire con l’altro, con il gioco, con se stessi. Nel foursome, la palla che il tuo compagno ha lasciato corta, nel rough, non è solo un problema tecnico: è una domanda morale che ti viene posta. Sei disposto a farti carico? A non giudicare? A non usare quell’errore come alibi né come atto d’accusa? La filosofia ci aiuta a stare in questa ambiguità. A riconoscere che la responsabilità è, come dice il filosofo Emmanuel Lévinas, “l’essere-per-l’altro prima ancora dell’essere-per-sé”.

In effetti, ciò che rovina il foursome non sono mai i colpi sbagliati. Sono le reazioni sbagliate. Gli sguardi, le smorfie, i silenzi. È l’atto implicito di deresponsabilizzazione che rompe la fiducia.

Come ha scritto Martha Nussbaum nel suo libro Upheavals of Thought del 2001: “le emozioni sono giudizi di valore”. Sul campo, anche il modo in cui guardiamo il compagno dopo il suo colpo è un giudizio. Anche il nostro silenzio è un messaggio. Anche il nostro swing successivo dice qualcosa sulla qualità del legame che stiamo costruendo.

In questo senso, il foursome è il luogo dove l’approccio filosofico può diventare più.

Perché non basta superare l’errore: bisogna stare nella relazione. Non basta liberarsi dal peso dell’emozione: bisogna capire quale tipo di persona si vuole essere quando il gioco si fa difficile. Serve una riflessione sull’essere affidabili, non solo performanti. Sul saper reggere il peso delle cose non dette, dei colpi non riusciti, delle attese reciproche. È lì, nel silenzio tra un colpo e l’altro, che si gioca la partita più importante: quella della responsabilità condivisa. E solo chi ha imparato a pensarla – più che a “gestirla” – può uscirne vincitore.

Nel fourball siamo ancora ragazzi: liberi, autonomi, con un’uscita di sicurezza sempre pronta. Nel foursome, invece, siamo adulti: consapevoli che le nostre scelte ricadono sugli altri, che non possiamo sempre rimediare da soli, che ogni azione ha un’eco. E proprio per questo, il foursome è uno dei formati filosoficamente più belli del golf. Perché ci obbliga a pensare in due. A fidarci. A giocare come se il colpo dell’altro fosse nostro. E, forse, a diventare esseri umani un po’ più responsabili.