I golfisti della mia età ricorderanno la canzone Bisogna saper perdere dei Rokes di Shel Shapiro, titolo che mi è tornato in mente più volte mentre seguivo la Ryder Cup.

E c’è stato un momento, nella giornata di domenica, in cui io, come molti, mi sono chiesto: è davvero questo lo sport che amiamo? La scena è nota: Rory McIlroy, trascinatore del team europeo, circondato da cori ostili, insulti personali, e addirittura con la moglie bersaglio di una lattina lanciata dalla folla. Una situazione che ha costretto gli organizzatori a raddoppiare la scorta attorno al campione nordirlandese.

Non si tratta più di semplice rivalità sportiva: siamo di fronte a qualcosa che scivola pericolosamente verso la barbarie.

Mi sono chiesto: può esistere uno sport senza rispetto? E soprattutto, perché in certi contesti il pubblico americano sembra incapace di accettare la sconfitta?

 Che il pubblico americano sia caloroso e rumoroso è cosa nota. Fa parte della cultura sportiva d’oltreoceano: lo show è sempre stato parte integrante del gioco. Ma qui siamo oltre. Quando la passione si traduce in insulti, minacce e violenza simbolica — o reale, come un bicchiere o una lattina scagliati contro una donna — non si tratta più di folklore, ma di degenerazione.

Il caso McIlroy è emblematico. Per tre giorni è stato vessato, provocato, fischiato. Eppure, la sua unica colpa era solo quella di essere il migliore in campo, di incarnare l’orgoglio europeo.

Una cosa ‘normale’ in un evento sportivo negli Stati Uniti a quanto pare se un ex campione di baseball della squadra di Atlanta, Chipper Jones, ha commentato l’accaduto così: “In vent’anni, alla mia famiglia non ho mai permesso di andare a vedere una partita a New York.
Cosa ti aspetti che succeda? È giusto? No! Ma quando sei il nemico pubblico numero uno… aspettati di essere trattato duramente”. Una giustificazione che suona come una resa morale: come se il male, solo perché diffuso, diventasse accettabile. 

Il filosofo Immanuel Kant (nella Fondazione della metafisica dei costumi del 1785) ricordava che l’uomo non deve mai essere trattato come mezzo, cioè ridotto a strumento, disumanizzato.

Quel lancio verso la moglie di McIlroy è stato invece l’atto simbolico di chi riduce l’altro a strumento, strumento per scaricare la propria frustrazione: un bersaglio da colpire, un nemico da annientare. È il contrario dello spirito sportivo, che nasce per creare incontro attraverso la competizione, non odio.

Il filosofo inglese Thomas Hobbes, nel Leviatano (1651), descriveva la vita nello ‘stato di natura’ -quello stato nel quale l’umanità è priva delle regole che disciplinano la convivenza – come “solitaria, povera, brutta, bestiale e breve”, dominata dalla guerra di tutti contro tutti. L’arena sportiva, quando perde le regole del rispetto, rischia di trasformarsi proprio in quello stato di natura.

 Alexis de Tocqueville, nel suo celebre La democrazia in America del 1835, descriveva l’energia e la vitalità del popolo americano, ma metteva in guardia anche dal pericolo della ‘tirannia della maggioranza’, quando il consenso della folla diventa oppressione per chi la pensa o agisce diversamente: “In America la maggioranza traccia un cerchio formidabile intorno al pensiero. All’interno di quei limiti l’autore è libero di scrivere quel che vuole, ma guai a lui se osa uscirne… è esposto a ogni sorta di disgusti e a continue persecuzioni.” La Ryder Cup ha offerto un esempio lampante: la maggioranza urlante del pubblico ha imposto la sua legge, trasformando la competizione in un processo pubblico, dove l’accusato era Rory e il verdetto era già scritto.

Perché tutto questo? Forse perché negli Stati Uniti lo sport è spesso vissuto come guerra simbolica, come campo di battaglia dove l’unica cosa che conta è vincere.

Perdere non è contemplato. Non sorprende che molti osservatori abbiano visto un riflesso della cultura politica americana recente: un Paese polarizzato, in cui l’avversario non è mai un interlocutore, ma un nemico da delegittimare. I tifosi di Bathpage hanno mostrato cosa succede quando non si accetta di perdere secondo le regole: non solo si scatena la propria frustrazione su di un ‘nemico’ individuato come il responsabile di tale sconfitta, ma anche si tenta di sovvertire il risultato sovvertendo la regola stessa. La regola che impone agli spettatori di sostenere lealmente i propri beniamini senza interferire con il gioco degli avversari.

O si vince secondo le regole o pur di vincere le si piegano, si forzano, si infrangono fino a smettere di giocare: non è più vittoria, è solo la sospensione del gioco… e della convivenza civile.

In termini filosofici, Bernard Suits lo dice chiaramente: un gioco esiste solo finché accettiamo le difficoltà e i limiti imposti dalle regole, abolirli equivale a uscire dal gioco. Se la folla prova a intimidire l’avversario, sta introducendo un mezzo ‘proibito’ che rende il risultato nullo: vince il rumore, perde il golf. I benefici della competizione dipendono da una reciprocità di rispetto: quando la parte più numerosa impone la propria faziosità, rompe il patto che rende la competizione possibile. A forza di voler ‘avere ragione’ a ogni costo, si finisce per perdere l’unica cosa che conta davvero nello sport e probabilmente nella vita: la legittimità e dignità del risultato.

Karl Popper, in La società aperta e i suoi nemici del1945, ci ricorda che la grandezza della democrazia sta proprio nella capacità di cambiare idea, di accettare la sconfitta temporanea, di rinnovarsi senza violenza. Lo sport dovrebbe insegnarci questo: la bellezza del match play, dove puoi perdere una buca ma ripartire dalla successiva. Invece, sugli spalti, abbiamo visto l’esatto contrario: il rifiuto di perdere, trasformato in rabbia cieca.

A New York, il pubblico americano è sembrato passare da comunità di tifosi a fazione militante, con una logica da stadio calcistico più che da torneo di golf.

La trasformazione è avvenuta sotto i nostri occhi: cori che diventano insulti, ironia che diventa odio, passione che diventa violenza. E in questo passaggio si è perso il senso del gioco. Pierre de Coubertin, padre delle Olimpiadi moderne, diceva che “lo sport deve essere la celebrazione dell’amicizia tra i popoli.” La Ryder Cup è nata proprio con questo spirito: unire due continenti in un confronto di alto livello tecnico e umano. Vedere Rory McIlroy costretto a difendere sua moglie da una lattina è un tradimento di questo spirito.

C’è chi dirà che “fa parte del gioco”, che “in America è normale”.

Ma normalizzare l’ingiustizia non la rende meno grave. Il filosofo illuminista Voltaire ricordava che “il fanatismo è un mostro che osa chiamarsi figlio della religione” (Dizionario filosofico del 1764). Potremmo parafrasarlo: il fanatismo sportivo è un mostro che osa chiamarsi figlio della passione. Ma non lo è: è solo il suo contrario.

Fin dall’inizio chi ha scritto le regole del golf ha basato il nostro sport sul rispetto reciproco, sul fair play, sulla regola comune. Forse è qui la vera differenza culturale emersa a Bethpage: una filosofia dello sport come confronto civile, contro una visione ridotta a scontro tribale.

Vale la pena ricordare che lo stesso McIlroy, pochi anni fa, fu protagonista di un gesto opposto. Dopo una sconfitta bruciante, non si rifugiò nell’alibi né accusò nessuno: nel BMW PGA Championship del 2022, quando Shane Lowry lo batté dopo un finale al cardiopalma, McIlroy lodò la performance di Lowry, strinse la mano all’avversario e disse che aveva giocato meglio.

Quel gesto vale più di mille parole. Insegna che lo sport vero è riconoscimento reciproco.

La Ryder Cup 2025 passerà alla storia anche per questo: per l’ostilità senza precedenti del pubblico americano, così forte da spingere uno dei loro giocatori, Justin Thomas, a darsi da fare per calmare gli animi. Ma non deve rimanere solo un brutto ricordo: può essere una lezione. Per i giocatori, che devono imparare a convivere con la pressione e l’ostilità. Per gli organizzatori, che devono garantire sicurezza e rispetto. Per i tifosi, che dovrebbero riscoprire la gioia di sostenere senza distruggere.

E per noi spettatori europei, una domanda in più: siamo sicuri che, a parti invertite, sapremmo comportarci meglio? La vera sfida non è solo vincere la Ryder Cup, ma custodire lo spirito che la rende unica.