Quando leggeremo queste note saremo pronti per sostenere la nostra squadra alla Ryder Cup, la maggioranza di noi davanti al televisore, i più fortunati a New York, sul campo.
C’è qualcosa di quasi magico nella Ryder Cup. Un torneo che non mette in palio né premi milionari né punti per il ranking mondiale, eppure scatena emozioni che nessun altro evento di golf riesce a generare. Il golfista abituale è lo stereotipo dell’equilibrio: silenzio sul tee, rispetto per l’avversario, applausi anche a un colpo ben giocato da chi sta dall’altra parte.
Ma alla Ryder tutto cambia
Tribune che esplodono all’errore dell’avversario, cori urlati a squarciagola, facce dipinte, mani che agitano le palette con scritto “Quiet please” non per permettere la concentrazione dei giocatori ma per zittire i tifosi avversari. Che cosa accade? Perché uno sportivo equilibrato si trasforma in un tifoso sfegatato, pronto a fare cose che da solo non farebbe mai?
La risposta inizia con una parola: gruppo. Se da soli restiamo moderati, quando siamo immersi in una folla compatta ci succede qualcosa.
Il giurista statunitense Cass Sunstein, nel suo libro #Republic.com del 2017 ha osservato che gli individui tendono a seguire ciò che gli altri credono o fanno, non necessariamente perché siano convinti, ma perché assumono che gli altri abbiano informazioni migliori o che “la sappiano più lunga” ad esempio su come è meglio sostenere la propria squadra. Inoltre “le persone si conformano per essere accettate o per evitare di essere escluse, anche quando non credono fermamente in ciò che affermano” o in ciò che fanno.
Aristotele lo aveva detto con chiarezza nel suo scritto Politica: “L’uomo è per natura un animale sociale”, cioè un essere che trova senso e compimento non da solo, ma nella vita in comune. Il bisogno di appartenere a un gruppo non è un accessorio: è parte costitutiva della nostra identità. Non siamo individui isolati che a volte scelgono di stare insieme: siamo esseri che si definiscono attraverso le relazioni, i legami, i riconoscimenti reciproci.
È per questo che, nella bolgia della Ryder Cup, tanti spettatori lasciano da parte il loro abituale equilibrio.
Non stanno solo assistendo a un torneo: stanno partecipando a un rito di appartenenza. Gridare, esultare, agitare un cartello contro i rivali non è soltanto espressione di entusiasmo: è una dichiarazione implicita di identità. “Faccio come il mio gruppo, perché il gruppo è la mia casa.” E così, al Bethpage Black, basterà che qualcuno inizi un coro per trasformare migliaia di spettatori pacati in un’onda di rumore che un golfista, abituato al silenzio, fatica a gestire.
Il passo successivo è quello della trasformazione da gruppo a fazione. Un gruppo è comunità che si riconosce, che costruisce legami positivi. Una fazione è il gruppo che si definisce solo in opposizione a qualcun altro. Tutto si riduce a ‘noi’ contro ‘loro’. Il gruppo, inizialmente, si definisce per ciò che ama: una squadra, un giocatore, un ideale. La fazione, invece, si definisce contro qualcun altro. Non basta più tifare Europa: bisogna tifare contro gli Stati Uniti. È un meccanismo noto che si ripete in ogni settore della vita e della società: spesso a tenere assieme persone con interessi diversi e talvolta conflittuali è la contrapposizione con un nemico comune. Un’unità che si mantiene solo perché c’è un nemico, sparito quello sparisce il gruppo. Il gruppo diventa fazione quando smette di fondarsi su ciò che unisce e si regge solo su ciò che lo divide dagli ‘altri’. La Ryder Cup può talvolta mostrarcelo in modo esplicito: lo stesso pubblico che applaude il proprio campione, un istante dopo deride l’avversario. La metamorfosi è compiuta: il gruppo che celebrava valori condivisi è diventato fazione che sopravvive solo nell’ostilità.
Carl Gustav Jung notava: “Viviamo in una società competitiva che scatena rivalità senza esclusione di colpi. E il comportamento aggressivo come un modello per farsi largo nella vita”.
La Ryder Cup, con la sua formula Europa vs. USA, amplifica questa rivalità. Non è più un duello tra individui, ma tra fazioni. La vittoria non è solo sportiva: diventa identitaria.
Un gruppo, o una fazione, non è un’entità astratta ma è formato da individui, si apre perciò una importante domanda filosofica: come può la fazione trascinare nel proprio vortice le singole persone? Il desiderio di appartenenza così tipicamente umano, quando il gruppo si trasforma in una fazione si trasforma a sua volta: diventa la paura dell’espulsone, dell’essere condannato a diventare uno degli ‘altri’. Ma c’è di più: il piacere della ricompensa immediata. Un comportamento corretto non produce effetti immediati: stare in silenzio non produce nulla di immediatamente visibile, non c’è, per così dire, un premio per il proprio comportamento corretto. Al contrario se nel silenzio generale io faccio una battuta per deridere il giocatore avversario, ecco che la fazione cui appartengo ride di essa e il mio gesto viene premiato subito da centinaia di voci che lo amplificano. Ecco, proprio questo meccanismo può spingere le persone a smettere di fare la cosa giusta per ricercare l’approvazione della propria fazione, per ricevere il proprio ‘premio’. Non è più ragione a guidare l’azione, ma il desiderio immediato di approvazione.
Proprio come aveva sottolineato la filosofa francese Simone Weil nel suo libro La prima radice del 1949: “L’appartenenza a una fazione spesso soffoca la ricerca della verità, trasformando l’individuo in un sostenitore cieco”. Le persone, perciò, tendono a spostare le proprie opinioni e azioni verso il consenso del gruppo. E così il circolo vizioso è completato.
Come resistere? Se la folla spinge verso una tale polarizzazione, che fare?
Socrate ci offre un modello: “Mi sono fatto molti nemici dimostrando l’ignoranza di coloro che si credono sapienti” come riportato da Platone nell’Apologia. Il suo metodo era quello del dubbio, del mettere in discussione ciò che sembrava ovvio. Parlando di tifoserie, questo significa chiedersi: davvero è giusto esultare per l’errore altrui? Davvero è bene trasformare il golf in una bolgia da stadio?
Abbiamo visto che il passaggio da gruppo a fazione è una metamorfosi quasi naturale: il bisogno di appartenenza si trasforma in ostilità, il coro si fa bolgia, l’identità si fonda sulla contrapposizione.
Ma allora: è inevitabile? O possiamo trovare strategie per vivere l’appartenenza senza scivolare nella faziosità?
Il Caddie filosofo ha dei consigli da dare ai fortunati che saranno a New York, dentro la bolgia:
Ricorda che il silenzio è parte del golf. La paletta “Quiet Please” non è un dettaglio folcloristico: è un simbolo di rispetto. Che ti serva da bussola: puoi tifare forte dopo il colpo, non durante.
Tifa ‘per’ non ‘contro’. Quando senti il bisogno di esultare per un errore dell’avversario, fermati un istante e chiediti: sto sostenendo i miei o sto demolendo gli altri? La differenza è sottile, ma eticamente enorme.
La folla è contagiosa: il coro, il ritmo, i colori. È bello lasciarsi trasportare, ma non al punto da dimenticare chi sei. Prova a chiederti: “Questo gesto lo farei anche da solo?”. Se la risposta è no, forse stai entrando nella logica della fazione.
Ma ha anche dei consigli per chi seguirà dal divano:
Riconosci la dinamica “noi contro loro”. Anche davanti alla TV scatta la polarizzazione: i commentatori, le grafiche, i social ti spingono a dividere il mondo in due blocchi. Essere consapevoli è il primo antidoto.
Evita la ‘camera dell’eco digitale’. Su Instagram o su WhatsApp è facile circondarsi solo di chi tifa come te. Prova invece a leggere anche i commenti ‘dall’altra parte’. Cass Sunstein ricorda che il dialogo con opinioni diverse riduce la polarizzazione.
Goditi la bellezza del gioco. La Ryder non è solo una battaglia: è uno spettacolo di talento, coraggio e pressione psicologica. Non ridurla a un derby calcistico: gustala come il torneo unico che è.
Trasforma la tensione in riflessione. Platone ci invitava a vivere nell’esame: “Una vita senza esame non è degna di essere vissuta”. 24Chiediti: perché mi emoziona così tanto vedere un europeo imbucare un putt contro un americano? Cosa mi dice del mio bisogno di appartenenza?
Che tu sia sulle tribune del Bethpage o seduto sul divano, il consiglio del Caddie Filosofo è semplice: usa il tifo per sentirti parte di un gruppo, non per trasformarti in una fazione. Il gruppo ti unisce, la fazione ti divora. Il gruppo ti dà energia, la fazione ti ruba libertà. Il gruppo ti rende felice, la fazione ti lascia vuoto. E allora il segreto è tutto qui: tifare con entusiasmo senza smettere di essere se stessi.
Due valori in conflitto
In fondo, la questione è questa: nella Ryder convivono due valori.
- Da una parte, il valore del rispetto sportivo, che riconosce l’avversario come parte del gioco.
- Dall’altra, il valore della fazione, che trasforma tutto in noi vs. loro.
Non possiamo averli entrambi in purezza. Dobbiamo scegliere, e ogni scelta ha un costo.
